Piovono salvagenti su un al-Sisi che rischia di affondare nelle sabbie mobili dello sdegno dell’opinione pubblica internazionale. Li lanciano i sauditi, li lanciano gli statunitensi che negli ultimi giorni hanno fatto visita al presidente alle prese con il caso Regeni.

Dopo i 20 miliardi di dollari messi sulla scrivania di al-Sisi da re Salman in persona, ieri è toccato ad un annuncio spettacolare, da teatranti: Arabia Saudita e Egitto costruiranno un ponte gigantesco tra i due paesi divisi dalla magnifica barriera corallina del Mar Rosso. «Mi sono accordato con sua eccellenza il presidente al-Sisi per costruire un ponte che colleghi i nostri paesi – ha detto re Salman – Questo passo storico incrementerà il commercio tra i due continenti come mai prima».

Alla base sta un identico sistema di alleanze, fondato sulla giustificazione della lotta al terrorismo che cementa la fedeltà incondizionata del Cairo nei confronti dei suoi salvatori. Ancora soffocato da una grave crisi economica, con il turismo in caduta libera e la Penisola del Sinai incontrollabile, al-Sisi rischia di risvegliare le mai sopite ambizioni democratiche del suo popolo.

Forse per questo di fronte alla delegazione del Congresso Usa ha usato il terrorismo come paravento per nascondere i reali obiettivi della repressione interna: «La democrazia è un processo in espansione e in fieri, non può essere ottenuto in una notte», ha commentato il presidente alla domanda sulle violazioni quotidiane dei diritti umani. Ma, ha aggiunto, l’Egitto ha intenzione di «raggiungere un equilibrio tra sicurezza e stabilità e diritti e libertà».

Una risposta che accontenta, senza dover scavare nel vero significato di sicurezza per al-Sisi: bocche chiuse alle opposizioni, società civile sotto silenzio, arresti arbitrati, torture. Accontenta anche la delegazione del Congresso Usa che da sabato scorso passa da un meeting all’altro con i vertici egiziani per discutere di sicurezza e guerra al terrore.

Nell’incontro di giovedì tra lo speaker della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, al-Sisi e il suo ministro degli Esteri Shoukry, si è aperta la strada ad una collaborazione diretta tra i due parlamenti. Nelle stesse ore Lindsey Graham, presidente della commissione del Senato per gli aiuti esteri, ha paventato il lancio di un “piano Marshall” per Egitto, Libano e Giordania, «parecchi miliardi di dollari per affrontare le pressioni che stanno subendo». In particolare Graham pensa ad un incremento degli attuali aiuti attraverso procedure di emergenza e, nel caso egiziano, «l’accesso a prestiti a basso interesse, accordi commerciali e sostegno alla società civile» in cambio di un allentamento della repressione interna.

«Siamo tornati qui con un rinnovato senso di urgenza – ha commentato all’agenzia al-Monitor il senatore Usa Perdue – Al-Sisi è potenzialmente il più grande partner degli Stati Uniti. Ci sono due cose da fare: capire come migliorare le capacità [egiziane] nella lotta all’Isis, in particolare nel Sinai; e capire come permettere al presidente di guadagnare maggiore consenso popolare, necessario a rafforzare l’esercito».

Le forze armate ancora al centro, le stesse che controllano il 40% dell’economia del paese e gestiscono alleanze all’esterno e pugno di ferro all’interno. Nel mirino c’è l’instabile Penisola del Sinai (che permette a Graham di promettere altri soldi anche a Israele), che merita molto di più del miliardo e 300 milioni di aiuti militari finora riconosciuti al Cairo. Ad aiutare al-Sisi è lo Stato Islamico e il suo braccio egiziano: ieri quattro bombe rivendicate dal gruppo Provincia del Sinai, nato da Ansar Bayt al-Maqdis (che giurò fedeltà all’Isis nel novembre 2014) hanno centrato due convogli militari nella zona di Sheikh Zuweid uccidendo 6 soldati e ferendone 12.

Ma lo Stato Islamico continua a colpire anche in Siria, dove la risposta internazionale contro la stessa minaccia è sicuramente più debole, in termini militari e finanziari: giovedì a sud-est di Damasco miliziani islamisti hanno rapito circa 300 operai della compagnia di cemento Al Badiyeh Cement nella comunità di Dumeir. Il funzionario locale Nadim Kreizan ha riportato le voci di testimoni che avrebbero visto circa 125 operai venire portati via su degli autobus.

Ieri giungevano notizie confuse: sembrava che 175 di loro fossero stati brutalmente uccisi, ma poche ore dopo l’esercito siriano ha smentito il massacro. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, 140 sarebbero riusciti a fuggire.