Una duplice forma di resistenza si impossessa di chi si accosti all’epistolario finora inedito di Irène Némirovsky, perché alla ovvia perplessità che può suscitare la decisione di dare alle stampe le lettere di una autrice restia a accordare valenza letteraria a questa forma particolare della sua scrittura, si aggiunge l’imbarazzo più sostanziale di chi già conosce l’esito drammatico verso cui stava inconsapevolmente precipitando chi scrive queste righe. Seguendo la progressione cronologica delle pagine, diventa inevitabile la sensazione di non poter evadere dalla congiura di una simile ineluttabile fine, quasi esistesse una sorta di mostruoso nesso teleologico fra la diciannovenne che raccomanda a una amica di coprirsi bene prima di «andare a flirtare la notte in un parco» e la affermata romanziera che muore di malattia ad Auschwitz due settimane dopo l’arrivo.

Se tuttavia, giunti a metà di Lettere di una vita (traduzione di Laura Frausin Guarino, Adelphi, pp. 462, € 24,00) si ha l’impressione di ritrovarsi di fronte a un libro importante non è solo per la cura impeccabile di Olivier Philipponnat (già biografo di Némirovsky) che riesce a imporre alla successione delle lettere un ritmo quasi romanzesco, ma anche e soprattutto per la qualità del testo, capace di trasformarsi inaspettatamente in un documento indiziario rivolto contro parte del mondo intellettuale francese. Dotato di una tensione emotiva a volte quasi insostenibile, Lettere di una vita si conclude con un effetto di fortissimo prodotto sia dalla acribia profusa dagli editori collaborazionisti nel far applicare le leggi antiebraiche, sia  dalla riluttanza non meno sconvolgente delle vittime ad ammettere l’esistenza dell’abisso che sta per inghiottirli.

Ben poco delle missive che Philipponnat riunisce nella sezione iniziale sotto il titolo Spensieratezza, 1913-1924 lascia presagire il fulminante successo letterario che Némirovsky conoscerà alla fine degli anni Venti. La ragazza di origini russo-ebraiche giunta a Parigi con i genitori a seguito della rivoluzione di Ottobre esprime, sì, la sua soddisfazione per aver riportato i voti migliori in letteratura francese tra i suoi compagni di corso alla Sorbona, ma nel fitto scambio epistolare con l’amica Madeleine Avot a prevalere non sono i riferimenti ai libri, bensì i resoconti delle feste scatenate che frequenta insieme ai suoi corteggiatori: «A Nizza, tanto per cambiare, non ho fatto per niente la brava… Il giorno prima della partenza c’era un grande ballo da noi, all’Hôtel Negresco. Ho ballato come una pazza fino alle due del mattino e poi sono uscita a flirtare nell’aria gelida, bevendo champagne ghiacciato. Risultato: bronchite». E, tuttavia, pur nell’affettazione di fondo si riconoscono alcuni passaggi di quel brio misto a supremo distacco che farà la fortuna di Némirovsky – per esempio là dove descrive quei «poveri malati» dei suoi familiari, che ha sentito  «tossire prima in una camera e poi nell’altra, pensa che allegria!»; oppure quando allude all’incontro notturno con un amico: «…lo abbia caricato in auto sulle rive della Senna…o della Marna, non ricordo più!».

È comunque con una certa sorpresa che nel capitolo successivo (Celebrità, 1929-1939) il lettore ritrova l’ex sfrenata ballerina di tango e shimmy perfettamente compresa nel suo ruolo di scrittrice esordiente. Nel frattempo, Némirovsky non solo si è sposata con Michel Epstein (figlio anche lui di un banchiere ebreo di Pietroburgo che dopo la Rivoluzione ha dovuto ricostruire all’estero la sua fortuna) e ha messo al mondo la primogenita Denise, ma ha anche pubblicato i suoi primi romanzi brevi, La nemica e Il ballo, camuffata sotto lo pseudonimo di Pierre Nerey. Non si sa per quale motivo l’autrice avesse deciso di debuttare celandosi dietro una controfigura maschile quanto mai improbabile, stante l’evidente trasporto autobiografico con cui in entrambe le opere si arrovellava sulla rivalità fra madri e figlie. Tuttavia la resistenza a svelare la propria identità si dimostrò giustificata: quando infatti il clamoroso successo di David Golder, pubblicato da Bernard Grasset nel 1929, la costrinse a uscire allo scoperto, nulla le venne risparmiato in termini di stereotipi di genere. Anche i critici più prodighi di elogi non poterono fare a meno di esprimere il loro stupore all’idea che un libro «così forte, virile, brutale» fosse stato scritto da una donna, per di più nemmeno trentenne.

Leitmotiv dell’epistolario diventa dunque l’affermazione del proprio diritto a un lavoro tanto indipendente quanto appartato, rinviando ai mittenti le insistenti richieste di «spiegare» la propria opera. A questo compito Némirovsky si sentiva particolarmente inadatta, come ammette a Gaston Chérau, colui che eleggerà a confidente, incoraggiata non solo dalla notevole differenza d’età, ma anche dalla percezione di una affinità elettiva, peraltro ricambiata. Se infatti Chérau esprime ammirazione per lo stile della giovane («con lei, fin dalla terza frase, ci si sente in mezzo ai personaggi»), Némirovsky si dichiara affascinata dalla capacità dell’interlocutore di dar voce a «bambini infelici, soli e incattiviti», rappresentando senza infingimenti un nodo cruciale per la sua stessa opera.

«Un’infanzia rovinata, quella non si perdona», osserva nel Vino della solitudine, definito da lei stessa in una lettera del 1935 a Chérau «il romanzo quasi autobiografico che fatalmente, presto o tardi, si finisce sempre per scrivere». E sarà proprio l’uscita di questo libro a rinverdire sulla stampa le accuse di antisemitismo, che le erano state già rivolte all’epoca di David Golder, raffigurazione «troppo» caustica di un banchiere ebreo. «Una scrittrice come lei è una manna offerta al branco antisemita!», le scrisse Adolphe Shual dalle colonne di «Israël», frecciata cui Némirovsky replicò a distanza in una lettera del 1940 ad Albin Michel, che era, nel frattempo,  diventato suo editore di riferimento: «…in letteratura non ci sono argomenti tabù. Perché un popolo dovrebbe rifiutarsi di essere visto qual è, con i suoi pregi e i suoi difetti?».

Lettere di una vita si chiude con un epilogo in contumacia, in cui Némirovsky, arrestata il 13 luglio 1942 in quanto ebrea apolide, sparisce dal suo stesso epistolario. Resta il marito Michel che, prima di andare incontro al medesimo destino, tenta invano di scoprire dove sia stata deportata la moglie. Su consiglio di Paul Morand compulsa freneticamente i suoi romanzi per comprovare che non ha mai nutrito sentimenti antigermanici, e si appella infine all’ambasciatore tedesco. Improntate a una rassegnata chiaroveggenza sono invece le ultime lettere dell’autrice, pochi giorni prima dell’arresto. Dopo infruttuosi tentativi di continuare ad assicurare un reddito alla propria famiglia riesumando il vecchio pseudonimo di Pierre Nerey e ricorrendo a una prestanome, pur di poter pubblicare a dispetto delle leggi razziali, Némirovsky decide di «scrivere per il futuro», dedicandosi a Suite francese, che non terminerà mai. Ad André Sabatier, coraggioso collaboratore di Albin Michel, che le fa visita a Issy-l’Évêque, spezzando un isolamento ormai totale, dirà: «Qui la vita continua come ha potuto vederla: monotona… per fortuna. Ultimamente ho scritto molto. Saranno opere postume, suppongo, ma fanno comunque passare il tempo».