Abbracciare la rete invece di vederla come una minaccia: era il 2014 e il presidente iraniano, Hassan Rouhani, suggeriva di imprimere uno scarto nella gestione di internet nel paese.

Accumulare restrizioni e stringere le maglie della censura – continuava Rouhani – sarebbe stato come continuare a sguainare una «spada di legno in uno scontro a fuoco». «Internet va vista come un’opportunità. Bisogna riconoscere ai cittadini il diritto di connettersi alla World Wide Web», diceva nelle dichiarazioni riportate dall’agenzia Irna.

Rouhani un anno prima aveva preso il timone del governo della Repubblica islamica dopo due mandati del presidente conservatore Mahmoud Ahmadinejad, l’uomo che aveva dichiarato guerra alla blogosfera, imposto la chiusura di diversi siti internet e spazi di dissidenza online, in particolare dopo le proteste dell’Onda Verde del 2009, come ha dettagliatamente documentato Annabelle Sreberny, professoressa alla Soas di Londra, nel libro Blogistan.

Facendo un balzo di quattro anni, arriviamo a oggi. Siamo nel 2018, Rouhani è al suo secondo mandato. L’ordine del discorso politico e la narrazione pro-web del 2014 si combinano a un progetto che sembra indirizzato a un controllo verticale piuttosto che a un esercizio collettivo e orizzontale nel processo di evoluzione digitale nella Repubblica islamica. L’Iran sta ancora lavorando a un progetto lanciato nel 2005, quello che prevede la creazione di una Rete nazionale, la cosiddetta Shabake-ye Melli Ettela’at. Si tratta di una intranet iraniana, che vanta «fibra ottica» e «super velocità», ufficialmente avviata per motivi di sicurezza, ma che de facto impedisce l’accesso a router esteri.

Ergo, quando un Ip iraniano si connette al web raggiunge in teoria solo siti locali, mentre l’accesso agli indirizzi stranieri viene filtrato (quindi in parte concesso) dalle autorità. Salvo che attraverso una app vpn (Virtual private network), i social come Twitter e Facebook sono bloccati, così come Youtube. Telegram, il sistema di messaggistica più usato in Iran, è stato prima praticamente oscurato a gennaio 2018 – durante le proteste che hanno principalmente agitato città come Mashad, Qazvin ed Esfahan, ma anche piccoli centri rurali in tutto il paese per circa una settimana – e poi filtrato. Mentre il Consiglio Supremo per il Cyberspazio snocciolava alternative interne a Telegram (come Soroush, Wispi, Gap, iGap and Bisphone),

L’amministrazione Rouhani si schierava apertamente contro la stretta sulla app, continuando a lasciar intendere una possibile rimozione dei filtri alla rete. Ancora una volta nella storia digitale recente della Repubblica islamica, il volto autoritario e quello più liberale della gestione del potere statale continuano a sovrapporsi per poi mutare e prevaricare l’uno sull’altro senza rimanere cristallizzati nel tempo e nello spazio. In tale contesto, una delle contraddizioni tanto evidenti, quanto spesso strumentalizzate, è la seguente: nonostante i divieti restino immutati dal punto di vista legale, le autorità iraniane – dal presidente alla Guida Suprema, passando per i ministri – usano i social network.

Al momento, Instagram è l’unica tra le grandi piattaforme social fuori dal setaccio della censura, nonostante resti comunque monitorato. Come diversi report hanno evidenziato, è anche luogo di rinegoziazione degli spazi di libertà, dove è possibile veicolare messaggi altrimenti relegati alla dimensione privata.

Nella ricontrattazione degli equilibri di potere all’interno dell’apparato statale iraniano, specialmente in un periodo di sofferenza politica come quella che sta vivendo l’attuale governo dopo l’uscita degli Stati uniti dall’Iran deal e il ritorno delle sanzioni americane, le linee rosse che riguardano internet potrebbero slittare nuovamente e incagliare nelle maglie della censura chi sfrutta il proprio ruolo di influencer come strumento di mobilitazione politica.

A dispetto di chi, come diversi gruppi per il regime change sostenuti dall’amministrazione Trump a Washington, descrive l’Iran come un blocco monolitico inerme schiacciato da un apparato unicamente repressivo, la realtà sul campo racconta di una società capace di agire contro quella che il presidente Rouhani definiva nel 2014 «una spada di legno» e avere un ruolo attivo nel processo di rinegoziazione dei propri spazi di libertà.