Cosa accade al protagonista di Io capitano, Seydou, una volta terminata la sua traversata dal Senegal verso le coste europee? «Tutto quello che succede dopo, da lì parte davvero il film» dice Alaji Diouf, 33 anni, anche lui originario del Senegal, dopo la proiezione organizzata dall’associazione Baobab Experience insieme al regista Matteo Garrone a Roma.

Sbarcato in Italia nel 2015, mischiato a una folla di oltre cento migranti come lui arrivati su un barcone salpato dalla Libia, un uomo ha indicato Alaji come la persona che aveva guidato l’imbarcazione. In pratica lo scafista, e questo gli è costato 7 anni nel carcere di Taranto per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Un caso aggravato dalla morte avvenuta a bordo di 8 persone per asfissia e dall’aver agito – secondo l’accusa – con fini di profitto. Tuttavia, Alaji non aveva neanche toccato il timone. «Mi hanno rubato un sogno e ora voglio fare ricorso – spiega – perché tante persone come me subiscono quest’ingiustizia».

«Per molti migranti il momento dello sbarco è il più pericoloso perché è lì che si decide il loro futuro», spiega l’avvocato Francesco Romeo. Ma le dinamiche sono opache e senza organi di garanzia. «Lì nasce e matura la figura dello scafista – prosegue il legale – un migrante destinato a essere sacrificato, un capro espiatorio su cui far ricadere tutta la responsabilità del viaggio». Chi guida il gommone, infatti, è una persona scelta tra le tante, spesso sotto ricatto.
La non conoscenza della complessità del fenomeno migratorio costa il carcere a centinaia di persone ogni anno. La proiezione del film di Garrone, da ieri nella short list tra i 15 titoli come miglior film internazionale in gara per l’Oscar 2024, come l’esperienza di Alaji, aiuta ad accorciare la distanza tra realtà e immaginazione, un terreno perfetto per raccontare una storia.

Gli attori che interpretano i protagonisti nel film hanno lo stesso sogno dei loro personaggi: lasciare Dakar e andare in Europa. «E’ stato un lavoro collettivo e tutte le comparse che abbiamo scelto sono persone che hanno vissuto quelle esperienze – spiega Garrone – sono state quelle comparse a scegliere l’attore che impersona il torturatore libico per esempio, perché sanno quale livello di aggressività doveva trasmettere». Cultura e politica si contaminano a vicenda e in questo crocevia risiede una vittoria.

Nell’ultima scena, il protagonista attira l’attenzione di un elicottero della guardia costiera italiana e la telecamera stringe su un primo piano capace di trasferire l’emozione di chi si sente finalmente in salvo. Ma se la voce di Seydou che grida «io capitano» inizialmente primeggia sopra tutto, poi viene sovrapposta, fino a scomparire, dal rombo delle pale dell’elicottero. Ed è forse quello che accade anche nella realtà: i migranti, una volta arrivati in Italia, non hanno più voce. «Per due anni non ho parlato con nessuno, né avvocati, né la mia famiglia. Ho subito molte violenze mentre ero in prigione – racconta Alaji – ma ora che sono libero voglio far conoscere al mondo la verità».

Insieme ad Alice Basiglini, di Baobab, e all’avvocato Romeo, Alaji ha deciso di lanciare la campagna «Capitani Coraggiosi» e, per la prima volta in Italia, instaurare un giudizio di revisione per annullare questo tipo di sentenza di condanna. In molti ormai cominciano a conoscere il caso di Alaji, non solo per gli anni ingiusti di carcere che ha dovuto scontare, ma anche per la possibilità di arrivare a una revisione della controversa figura dello scafista. «Riuscirci sarebbe importante anche per un altro migrante, Bakari, suo compagno di cella e di viaggio e accusato anche lui di essere uno scafista», dice il legale.

La campagna chiede la modifica dell’art.12 del Testo Unico sull’Immigrazione (favoreggiamento all’immigrazione clandestina) per superare – spiega Basiglini – l’equiparazione «tra le vittime dei confini e i solidali da una parte e coloro che sui muri, le frontiere e i respingimenti hanno costruito un giro d’affari».