Intervista: «Pechino non può procedere in solitaria»
Intervista Rohan Gunaratna è professore di Security Studies e capo dell’International Centre for Political Violence and Terrorism Research presso la Nanyang Technological University di Singapore. Precedentemente è stato Senior Fellow presso il Combating Terrorism Centre della United States Military Academy
Intervista Rohan Gunaratna è professore di Security Studies e capo dell’International Centre for Political Violence and Terrorism Research presso la Nanyang Technological University di Singapore. Precedentemente è stato Senior Fellow presso il Combating Terrorism Centre della United States Military Academy
Negli ultimi anni la Cina ha dovuto far fronte ad un’ondata di radicalizzazione con epicentro nella regione autonoma islamica dello Xinjiang. Nel mirino delle autorità la minoranza musulmana e turcofona degli uiguri che dal XIX secolo sfida il governo cinese rivendicando la propria appartenenza alla grande famiglia del Turkestan, la regione storica compresa tra Asia Centrale e Xinjiang.
Se nel corso del secolo scorso non sono mancate spinte secessioniste e sollevazioni locali, da qualche tempo la situazione sembra risentire dell’influsso del terrorismo globale. Difficile poter continuare a considerare quella dello Xinjiang una questione puramente etnica. Pechino punta il dito contro l’East Turkestan Islamic Movement, organizzazione della quale molti ormai mettono in dubbio l’esistenza.
Rohan Gunaratna è professore di Security Studies e capo dell’International Centre for Political Violence and Terrorism Research presso la Nanyang Technological University di Singapore. Precedentemente è stato Senior Fellow presso il Combating Terrorism Centre della United States Military Academy ed ha preso parte alla Commissione d’indagine sull’attentato dell’11 settembre. Autore di 16 libri, tra cui «Inside al Qaeda: Global Network of Terror» (University of Columbia Press), ha avuto modo di intervistare di persona terroristi e insorti in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Yemen, Libia, Arabia Saudita e altre zone di conflitto. Professore Gunaratna, è sensato parlare ancora di Etim? E se sì, quali sono i suoi rapporti con il terrorismo internazionale?
L’Etim ha cambiato nome in Turkestan Islamic Party (Tip) sotto l’influenza di al-Qaeda. A differenza dell’Etim che ha combattuto per la liberazione del Turkestan Orientale (ovvero dello Xinjiang), il Tip si batte per la liberazione di tutto il Turkestan, compreso quello Occidentale composto dalle 5 nazioni centroasiatiche ed è ancora il gruppo dominante tra i militanti uiguri. Nel corso del tempo la struttura del Tip ha subito cambiamenti radicali. A causa dell’aumento delle operazioni e delle attività di intelligence, adesso è diventato più discreto. I suoi operatori utilizzano tecnologie criptate per comunicare, ed è una sfida per Pechino e i governi stranieri riuscire a monitorare e interrompere le loro attività in modo efficace. Grazie alla sua interazione con una serie di gruppi terroristici, sia in Asia che in Medio Oriente, il Tip ha stabilito cellule compartimentate, dirette, guidate e finanziate sia da dentro che da fuori della Cina. Le figure chiave si trovano in Pakistan, Afghanistan, Turchia e Siria. Nonostante alcune defezioni in favore dell’Isis, la maggior parte della leadership e della base di supporto del Tip, per ora, rimane legata ad al-Nusra, il più attivo dei gruppi gravitanti intorno alla galassia di al-Qaeda. Non si può negare che il Califfato stia avendo una crescente presa sui militanti uiguri, da attribuire soprattutto alla superiorità dei suoi strumenti di propaganda. Per cui non ci dovremmo stupire se in futuro assisteremo ad uno spostamento della militanza uigura da al-Nusra verso Isis.
Secondo l’analista Christina Lin, la primavera araba del 2011 ha sancito un punto di svolta per la questione sicurezza in Cina. Quell’anno Kashgar (Xinjinag meridionale) fu colpita da un attentato dinamitardo e per la prima volta i separatisti uiguri piantarono una bandiera nera con scritte arabe piuttosto che quella tradizionale blu dell’East Turkestan con una stella e la mezzaluna. Quel gesto starebbe a simboleggiare lo slittamento dei militanti uiguri dalla storica posizione separatista ad una più radicale ispirata dalla jihad globale. È d’accordo? A cosa dobbiamo tale cambiamento?
Confermo. In effetti è proprio con la primavera araba del 2011 che il Tip ha perso ancora di più il suo carattere nazionalista per abbracciare l’idea di jihad globale diffusa da al-Qaeda. Si noti che la bandiera utilizzata dal Tip non è quella dell’Isis bensì quella di al-Qaeda. Il 2011 è stata un punto di svolta per molti, non soltanto per il Tip. Da quel momento il Tip ha capito quanto impatto può avere la mobilitazione delle masse e l’importanza di investire nella propaganda per una loro radicalizzazione e politicizzazione. Oggi la propaganda del Tip appare trasformata; è diventata molto più simile a quella di al-Qaeda e dell’Isis. Il braccio mediatico del Tip, l’Islam Azawi (Voice of Islam), rilascia la propria propaganda attraverso il Global Islamic Media Front, che è pro-al-Qaeda. La qualità dei filmati ormai è quasi hollywoodiana.
È ormai riconosciuto che dietro l’Isis vi siano paesi arabi come Qatar e Arabia Saudita. Quando parliamo di Tip dove dobbiamo guardare?
Può contare su svariate fonti di finanziamento in Medio Oriente e in Germania, dove ha sede il World Uyghur Congress, quello che potremmo definire il suo braccio politico. Inoltre bisogna tenere presente come il sistema di reclutamento dei miliziani uiguri si sovrapponga al traffico di essere umani passante per il Sud-est asiatico. Secondo varie fonti, la presenza di jihadisti cinesi tra le fila di Isis e al-Nusra ammonta a diverse migliaia. La maggior parte è costituita da uiguri, tuttavia lo scorso novembre l’Isis ha rilasciato un video in mandarino con il chiaro intento di raggiungere una più ampia fetta della popolazione islamica cinese. È lecito ipotizzare che l’obiettivo fosse l’altra minoranza musulmana cinese, quella degli hui, parlante mandarino e tradizionalmente considerata da Pechino come «innocua» per i suoi storici rapporti di cordialità con l’etnia maggioritaria han. Addirittura si comincia a parlare di una nuova fascinazione tra gli stessi han per il Salafismo nelle province cinesi in cui l’Islam è più presente, come il Gansu. Isis e al Nusra sono in aperta competizione per assoldare uiguri, hui e altre comunità musulmane. Questo deve aver spinto il Califfato a produrre propaganda in mandarino. Chiaramente si tratta di una svolta che avrà un impatto decisivo sulla sicurezza in Cina, ampliando la minaccia oltre i confini dello Xinjiang.
In realtà, negli ultimi anni, di attentati rilevanti al di fuori dei confini della regione autonoma ce ne sono già stati almeno due. Quello avvenuto nell’autunno del 2013 in piazza Tiananmen e quello del 2014 alla stazione di Kunming, nello Yunnan. Sono episodi attribuibili in qualche modo al terrorismo internazionale?
La nuova strategia del Tip prevede un’estensione delle operazioni ben al di fuori del tradizionale arco d’azione per aumentare l’impatto. Questo se da una parte è servito a pubblicizzarne le attività, allo stesso tempo ha innescato una risposta schiacciante da parte del governo cinese, impegnato a smembrare le cellule, la rete e le infrastrutture del Tip. Al contrario di quanto si pensa in Occidente, gli attentati di piazza Tiananmen e Kunming non sono opera del terrorismo internazionale. Sono stati pianificati, preparati e realizzati dal Tip, che ha impiegato anni per riuscire a ricostruire e riorganizzare il proprio network in Cina.
Recentemente Pechino ha varato la sua prima legge antiterrorismo che, tra le altre cose, permetterà all’esercito cinese di prendere parte a missioni all’estero. Ci dobbiamo aspettare un maggiore attivismo di Pechino oltreconfine, nonostante lo storico principio di non ingerenza negli affari interni degli altri paesi?
Con l’ascesa della Cina sullo scacchiere internazionale Pechino non può più permettersi di procedere in solitaria; è giusto che il governo cinese cerchi di proteggere i paesi colpiti dal terrorismo e dalla guerriglia. Il vero problema è che le capacità cinesi in materia di sicurezza sono ancora limitate rispetto a quelle di Usa ed Europa. In genere Pechino applica la politica del non interventismo. Ma con la nuova legge antiterrorismo – diventata effettiva il 1 gennaio – adesso il regime cinese ha il potere di ingaggiare in missioni all’estero forze militari e di polizia. E mentre per la spedizione di forze di polizia è necessario il consenso del paese coinvolto, per quelle militari tale autorizzazione non è del tutto obbligatoria. Staremo a vedere.
A marzo il generale Fang Fenghui, in visita a Kabul, ha proposto l’istituzione di un’alleanza regionale con Pakistan, Afghanistan e Tajikistan in chiave antiterrorismo. Sebbene i dettagli siano ancora pochi, il progetto è stato letto dalla stampa russa nell’ambito del crescente protagonismo cinese in Asia Centrale, ex feudo di Mosca. Dobbiamo considerarlo un’implicita ammissione del fallimento della Shanghai Cooperation Organization, l’organizzazione a guida russo-cinese che – riunendo sotto di sé tutte le nazioni centroasiatiche tranne il Turkmenistan – ha rappresentato finora la principale piattaforma multilaterale per il mantenimento della sicurezza regionale?
Non direi che la Sco non stia funzionando. Anzi. Rappresenta ancora un importante meccanismo di dialogo multilaterale per i paesi membri, in particolare per Russia e Cina. Che sia funzionale lo dimostra il fatto che gli uiguri non riescono a raggiungere il Medio Oriente passando per l’Asia Centrale; devono deviare per il Sud-est asiatico. Se solo ci provano finiscono per essere arrestati dai paesi Sco e deportati in Cina.
Da quando il regime cinese ha dichiarato guerra al terrorismo a una progressiva militarizzazione dello Xinjiang è seguita l’imposizione di regole più ferree sulla popolazione musulmana, con progressiva limitazione della libertà religiosa e delle tradizioni locali. A giudicare dal crollo degli episodi violenti riportati nell’ultimo anno dalla stampa cinese è una strategia che sembrerebbe funzionare. È proprio così?
Il controterrorismo necessita un approccio hard e soft allo stesso tempo. Se la Cina non avesse reagito duramente in passato avrebbe finito per perdere il controllo sullo Xinjiang. Ma col tempo Pechino ha capito l’importanza del lato soft, così ora sta tentando di spingere sulla crescita economica. Si sta adoperando per migliorare la governance, l’istruzione e l’occupazione nella regione autonoma. Ma rimane da vedere se la strategia del bastone e della carota basterà a tenere sotto controllo la situazione.
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