«Niente civili!» il militare di guardia perde subito la pazienza e intima di tornare indietro. «Si combatte, tutto il tempo, e bombardano costantemente, se ti lascio passare vai a morire, hai capito?». Difficile fraintendere, giriamo la macchina e torniamo al villaggio precedente.

Siamo a pochi chilometri da Lyptsi, uno dei due centri dove attualmente si combatte per la regione di Kharkiv. L’altro è Vovchansk a oltre 70 km dal capoluogo, sulla linea della vecchia frontiera tra Russia e Ucraina. Lyptsi invece è subito a nord, a 30 km dalle periferie di Kharkiv città. Per questo durante i primi giorni della nuova offensiva russa qui si temeva il peggio, se cadeva Lyptsi la via per Kharkiv era praticamente dritta. Non spianata, gli altri villaggi lungo questa direttrice sono già costellati di trincee e case sicure dell’esercito, ma senza ostacoli naturali, al contrario della strada per Vovchansk che supera il fiume Seversky Donec. E per lo stesso motivo qui le evacuazioni sono iniziate subito.

OGGI È QUASI IMPOSSIBILE trovare dei civili in giro, le case sono tutte semidistrutte o abbandonate. Chiediamo a una donna di circa 50 anni come mai tiene ancora aperto il suo negozietto di alimentari e casalinghi e lei risponde subito «per i militari». Ma non ha paura di restare qui, sembra che non ci sia più nessuno. «Sì ma io mica dormo più qui, la sera viene a prendermi mia figlia e torniamo verso Kharkiv». Sa se qualcuno è rimasto? «Qualcuno c’è, ma non saprei bene… non li sento da un po’».
Il ponte che separa Ruski Tushki da Borshchova è stato bombardato ed è completamente inagibile, per passare si deve passare attraverso le case deserte e guidare su una terra già completamente disidratata che ormai sembra sabbia.

I VILLAGGI CHE SI INCONTRANO non sono altro che piccoli agglomerati di case con un alimentari al centro e magari un ufficio pubblico che fungeva da posta, amministrazione e centro ricreativo. Già prima della guerra qui non c’era grande vita, ma ora è la desolazione completa. La statale taglia in due campi a perdita d’occhio, qualche capannone industriale o agricolo e poi, dopo la curva di sabbia, si inoltra tra i boschi. È qui che i soldati dovranno difendersi se Lyptsi cade.

Il viavai di automobili civili piene di militari testimonia che c’è ancora chi può andare nelle retrovie a riposarsi. Alcuni mezzi, magari quelli con gli ufficiali a bordo o con qualche carico particolare, montano sul tettuccio il dispositivo che qui tutti chiamo “Reb”, simile per dimensioni a un lampeggiante della polizia, ma che non emette alcuna luce e serve a inviare onde elettromagnetiche che disabilitano i droni. Quando vogliono spiegartelo tutti usano il verbo «gemmare» (dall’inglese to jam, disturbare, creare interferenze). In buona sostanza il drone non riesce ad avvicinarsi ma se lo fa smette di rispondere ai comandi a distanza e resta piantato in aria oppure atterra. «Un armatura invisibile» dice con un sorriso da cinema Leska, che assomiglia vagamente a Matt Demon, solo molto più palestrato e tozzo e che è l’autore di tutta la spiegazione.

I DRONI CONTINUANO a seminare terrore al fronte, sorvolano i cieli incessantemente da un lato e dall’altro e ormai non ci sono più momenti in cui i soldati restano all’aperto tranquilli, istintivamente si guarda sempre verso l’alto, soprattutto in campo aperto. Anche perché quando si sente il ronzio potrebbe essere troppo tardi. I due eserciti li usano per scovare le batterie avversarie, per seguire i militari fino alle postazioni nascoste (motivo per cui è stato proibito ai soldati di uscire dalle case sicure senza motivo) e per colpire i mezzi pesanti. Inviare un drone è molto più economico che rischiare una squadra d’assalto e, in molti casi, anche più efficace.

«QUI ARRIVANO I DRONI?» chiedo a Leska. «Giorno e notte» risponde, «ogni fottuto secondo». Passa un’ambulanza militare senza rallentare e quasi si infossa nel terreno sabbioso. «Brutta storia» dice Leska, «feriti gravi… poveri ragazzi». Sono molti i feriti? «Si combatte senza sosta da due settimane, ogni giorno decine di quei mezzi fanno avanti e indietro, ma non gliela lasciamo».

Salutiamo Leska e i suoi commilitoni per tornare a Kharkiv dove nel frattempo c’è stato un altro attacco. Arriviamo praticamente insieme ai paramedici, a terra c’è una donna a cui stanno praticando il massaggio cardiaco. La ragazza conta e spinge con entrambe le mani, mentre conta manda a quel paese un fotografo troppo invadente che viene fatto allontanare dalla polizia. Vediamo la pancia molle alzarsi e abbassarsi sotto gli impulsi energici dell’infermiera. Provano per diversi minuti ma nessun segno, la donna, di 47 anni, è morta. Il luogo dell’attacco è una fabbrica di prodotti di metallo con annessi magazzini, dei quali un paio hanno preso fuoco. I pompieri lavorano in squadre mentre cercano altri eventuali feriti. Alla fine il numero accertato è di 12 lavoratori della struttura portati in ospedale.

A POCA DISTANZA, al centro commerciale «Epicenter» bombardato sabato, i pompieri sono esausti. Riposano all’ombra dal sole cocente che, nonostante siamo solo a fine maggio, oggi ha fatto registrare 30 gradi. Nel secondo giorno di lutto cittadino in meno di una settimana (proprio per i morti dell’Epicenter) questi uomini hanno scavato tutto il giorno tra le macerie arrivando a ispezionare circa metà della struttura e portando alla luce altri 3 corpi. Per ora il totale delle vittime è salito a 17, alcune delle quali ancora da identificare.