È stata una settimana nera sul fronte del giornalismo e della carta stampata in America. Il cattivo presagio è arrivato assieme all’ultimo numero nella storia secolare del mitico National Geographic (fondato nel 1888) a giungere in edicola. Da questo mese in poi la leggendaria pubblicazione di esplorazione e viaggi sarà disponibile solo per abbonati e online – l’ultima di una lunga serie di testate ad arretrare nel digitale senza trovare risposte alla crisi cronica dell’editoria.

Ma per il settore già decimato, le cattive notizie per erano appena iniziate, e la scorsa settimana si sono tramutate in una specie di bollettino di guerra. Prima è arrivato l’annuncio della chiusura del sito di alt-critica musicale Pitchfork, la cui storia di critica varia e indipendente, iniziata negli anni 90, si è ignominiosamente conclusa con l’accorpamento al sito di GQ. La decisione è stata annunciata da Anna Wintour, content officer del gruppo Condé Nast che aveva acquistato il sito nel 2015. “L’ottimizzazione” è costata il posto a metà dei redattori, oltre a rappresentare la perdita di una voce indipendente in un panorama di giornalismo culturale sempre più povero monopolizzato. Il giorno dopo l’annuncio, giornalisti di testate Condé Nast come Vogue, GQ e Vanity Fair sono scesi in sciopero per protestare i tagli che interesseranno anche le loro redazioni.

Anche per un giornalismo ormai abituato al declino “fisiologico” (un gruppo americano di Facebook dedicato a giornalisti esodati – Plan B – annovera oltre diecimila membri) questi sono giorni particolarmente cupi. Nella stessa infausta settimana, Arena Group, proprietaria di Sports Illustrated, ha annunciato l’esonero della maggior parte dei redattori della storica testata sportiva che dopo 70 anni si è arresa alla realtà che investe anche una specialistica che pure, sulla carta, dovrebbe godere dei lettori più fedeli ed appassionati. Il licenziamento di oltre 100 giornalisti da SI che, al di là degli inserti annuali sui costumi da bagno, ha nei decenni anni ospitato le migliori firme americane di sport, è l’ultimo segno inquietante di un panorama che vede in crisi le redazioni sportive di molti grandi giornali ed in generale i contenuti sportivi su carta. Il posto di Sports Illustrated, con le sue inchieste, approfondimenti da magazine e ritratti long-read, è stato oggi preso soprattutto da The Athletic, il sito specializzato, di recente acquistato dal New York Times che ha contestualmente chiuso la propria redazione sportiva.

The Athletic, che scrive di campionati in tutte le principali città USA, e di recente di calcio da una redazione britannica, dichiara un milione di lettori paganti.

Sports Illustrated fa(ceva) parte della cordata Time Warner e quindi di Warner Bros. Discovery, la mega multinazionale basata New York, cui fanno capo anche l’omonimo studio cinematografico, la CNN, DC Comics ed HBO, oltre che storica testata Time, che gli da il nome. E nella “settimana nera” anche la stessa Time ha annunciato profondi tagli al proprio organico, compreso il licenziamento di un numero non precisato di giornalisti, che la CEO, Jessica Sibley ha definito “necessari per riportare in attivo il bilancio.”

Se per l’editoria newyorchese è stato un bagno di sangue, le cose non vanno meglio sulla West Coast dove il principale giornale, o meglio, ciò che rimane di quello che fu, in anni passati, il blasonato Los Angeles Times, secondo quotidiano d’America, ha annunciato l’esubero di 20% della propria redazione. 115 giornalisti su 500 finiti in strada – molti mentre si trovavano in trasferte di lavoro. Se si aggiungono al 13% di organico lasciato andare l’estate scorsa, significa che la testata ha ridotto la redazione di un terzo in meno di un anno.

Si tratta dell’ultimo capitolo in una parabola discendente accelerata nel 2007 con l’acquisto della testata da parte dello speculatore Sam Zell, specializzato nel rilevare società in crisi e spolparne il potenziale creditizio. Una volta assorbito dalla Tribune Company, l’organico del Times è stato decimato – compresa l’edizione digitale fino ad allora in crescita – un trattamento che in pochi anni ha ridotto il giornale sull’orlo della bancarotta. Successivamente il Times era stato acquistato dall’attuale editore, il magnate biomedico Patrick Soon-Shiong che aveva investito in mezzi e personale per invertire la rotta. Ma, pur bene intenzionato, dopo anni di emorragia di soldi e lettori, l’editore si è ora adeguato al cost-cutting ed ha abbassato la scure sulla redazione. Dopo l’annuncio a sorpresa, i giornalisti hanno annunciato uno sciopero immediato di un giorno e diversi parlamentari hanno firmato una lettera di “preoccupazione” indirizzata a Soon-Shiong.

Il caso Los Angeles Times è paradigmatico per la speculazione finanziaria di cui sono stati oggetto molti quotidiani in crisi, e preoccupante come caso di studio anche di una gestione “filantropica” simile a quella che interessa molti giornali, rilevati da facoltosi editori, che si sperava potessero essere antidoto alla crisi economica del settore. Di recente cosiddetti “miliardari dal senso civico” hanno acquistato diverse testate compreso il Washington Post di Jeff Bezos. Una simile soluzione era stata paventata anche per il quotidiano di Baltimora, storica testata, finita in mano ai rottamatori del fondo di investimenti Alden Capital. Un’offerta da parte del filantropo alberghiero Stewart Bainum non è però andata a buon fine e sempre la scorsa settimana il Baltimore Sun, fondato nel 1837, è stato comprato invece da David Smith, miliardario proprietario della Sinclair Broadcast Group, un conglomerato che controlla 193 emittenti televisive di linea conservatrice e filo Trump. Prevedibilmente le cose hanno da subito preso una piega inquietante. Dopo l’acquisizione, Smith ha convocato l’intera redazione per un discorso degno di Logan Roy in Succession, in cui ha informato i giornalisti esterrefatti di non avere particolari simpatie per il loro giornale e di averlo letto “non più di 3 o 4 volte”. Smith ha poi assicurato i presenti che “tutti avete comunque un lavoro – oggi…” ed esortato i redattori ad andare a “farmi guadagnare dei soldi”.

Sviluppi preoccupanti, proprio nel momento in cui l’importanza di un giornalismo indipendente viene continuamente invocata come essenziale, e nel contesto di una fase politica in cui uno dei due partiti politici americani considera ufficialmente la stampa “nemica del popolo.” Ed ulteriori cattivi presagi, mentre ci si interroga su possibili modelli di sostegno pubblico, abbonamento o sottoscrizione, che possano supplire alla fase dei “proprietari mecenati” che molti considerano come inevitabilmente destinata a tramontare.