La posizione contraria di Ankara alla richiesta di adesione alla Nato di Helsinki e Stoccolma ha motivi legati anche alla politica interna. Il 20 maggio, dopo la preghiera del venerdì, il presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, davanti alle telecamere ha accusato Svezia e Finlandia di «sostenere le organizzazioni terroristiche in Siria» e di «ospitare a casa loro i terroristi».

Qualche giorno dopo il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, ha espresso le stesse preoccupazioni aggiungendone un’altra: l’embargo parziale militare emesso dalla Svezia contro la Turchia nel 2019 a causa delle operazioni militari nel nord della Siria. La posizione turca in Siria è solitaria. È rimasta da sola a sostenere che Bashar al-Assad debba lasciare il potere anche se all’inizio della guerra, undici anni fa, questa era la posizione condivisa dagli alleati della Nato. Negli anni le convergenze tra gli alleati si sono moltiplicate soprattutto nell’ambito della «lotta al terrorismo». L’Isis veniva definito formazione terroristica sia dagli alleati che dalla Turchia, con varie difficoltà e numerosi punti interrogativi.

TUTTAVIA SE LE FORMAZIONI armate che lottavano contro l’Isis, le curde Ypg e Ypj, per buona parte degli alleati erano gli attori da sostenere sul territorio siriano, sin dall’inizio sono state definite da Ankara organizzazioni terroristiche. Cosa ci si può aspettare di diverso se la formazione cugina, il Pkk, è ancora definita organizzazione terroristica dalla Turchia?

Così mentre dagli Usa all’Italia, dalla Francia a Svezia e Finlandia, numerosi alleati turchi sostenevano politicamente e militarmente Ypg e Ypj, la Turchia, con il lasciapassare della Russia e in parte dell’amministrazione Trump e del governo siriano, colpiva queste forze invadendo i territori della Siria del nord, il Rojava.

Oggi Ankara chiede il conto di quanto successo finora e cerca di ricattare i suoi futuri alleati della Nato. Pretende anche una trattativa. Tra le aspettative immaginiamo la creazione di una zona cuscinetto nel Rojava. Una vittoria che per Erdogan potrebbe essere molto importante, soprattutto a livello elettorale dato che le elezioni si svolgeranno regolarmente nel 2023 e la coalizione del governo è ai minimi storici.

Se Erdogan riuscisse a ottenere ciò che chiede da tempo dimostrerebbe «a casa» che la sua linea, costi quel che costi, ha vinto e la Turchia «si è fatta valere». Operazioni militari costose, piene di sangue e perdite, risulterebbero per Erdogan e i suoi elettori una «giusta causa». La retorica della sicurezza nazionale, alle basi delle giustificazioni delle operazioni nel Rojava, per cui ha condotto una massiccia campagna di propaganda, troverebbe una conclusione «sensata». Un tema diventato anche un’arma politica contro chi si opponeva alle sue politiche di guerra.

DALL’ALTRA PARTE la creazione di una «zona sicura» nel nord della Siria significherebbe l’eventuale rimpatrio «sicuro» di quei cinque milioni di cittadini siriani presenti in Turchia. L’accoglienza disumana, la vita estremamente precaria e il mancato riconoscimento dei diritti da rifugiati hanno fatto sì che i siriani in Turchia diventassero un esercito di lavoratori sfruttati, in competizione con la manodopera locale. Secondo un sondaggio di aprile dell’azienda Optimar, circa il 25% dei turchi «odia» i siriani e l’11% prova una forte «ostilità».

Sempre più frequenti linciaggi e deportazioni, con i partiti d’opposizione che ormai lanciano continui appelli per il rimpatrio forzato. Erdogan si rende conto della situazione fuori controllo e all’inizio di maggio ha parlato del «piano di rimpatrio volontario per un milione di siriani». Secondo un sondaggio della società Metropoll, circa l’85% dell’elettorato del governo vuole che i siriani siano rimpatriati. La vittoria elettorale di Erdogan nel 2023 passa anche dalla «risoluzione del problema dei siriani». Una vittoria in Siria è ancora una volta fondamentale per lui.

L’ostilità nei confronti dei siriani è dovuta anche alla profondissima crisi economica in corso in Turchia. Secondo i dati ufficiali l’inflazione ha superato la soglia del 60% mentre secondo gli osservatori indipendenti è sopra il 150%. Nei supermercati i prezzi dei beni di prima necessità cambiano ogni giorno. La disoccupazione, secondo il governo, è circa il 12%, per i sindacati è sopra il 22%. Il sondaggio della Fondazione Konrad Adenauer a febbraio stima che il 70% dei giovani è senza speranza per il futuro e vorrebbe lasciare immediatamente la Turchia. Di fronte a questo quadro finora nessun provvedimento del governo è riuscito a risolvere i problemi.

La situazione è sempre più difficile, vengono nominati nuovi ministri, si firmano nuovi accordi commerciali con altri paesi e si scoprono nuovi giacimenti di petrolio nelle acque del Mar Nero. Ma nulla da fare, la Turchia è immersa in una crisi economica profonda. Anche se il governo e gli organi di propaganda ignorano il problema, la società non ce la fa più.

OGGI IL GOVERNO centrale della Turchia, ossia quel disegno politico e economico immerso in corruzione, evasione fiscale e commercio delle droghe, poco prima delle elezioni del 2023, deve giocare bene ogni carta per salvarsi. In quest’ottica la candidatura della Svezia e della Finlandia potrebbe essere «un’ottima occasione» per Erdogan, i suoi alleati, la sua coalizione e la sua famiglia, per provare a risolvere oppure rimandare ancora una serie di problemi lasciati in sospeso.