Dopo un anno di mobilitazione ininterrotta, 600 morti durante le proteste e una campagna di diffamazione costante portata avanti dai media governativi e da numerosi esponenti dell’esecutivo, ieri i contadini indiani hanno formalmente vinto lo scontro col governo di Narendra Modi.

IN UN DISCORSO ALLA NAZIONE proprio nel giorno di Guru Nanak Jayanti – il compleanno del principale guru del sikhismo, festa nazionale – Modi ha annunciato che le controverse tre leggi di riforma del comparto agricolo promosse dall’esecutivo a metà 2020 saranno abrogate «entro la fine della sessione invernale del parlamento».

Si tratta di un successo enorme per il movimento contadino indiano e, dal punto di vista politico, di una battuta d’arresto clamorosa per il partito di Modi, il Bharatiya Janata Party, che dallo scontro con le organizzazioni dei braccianti esce fortemente logorato. Specie in Uttar Pradesh e in Punjab, dove si andrà a elezioni locali tra meno di tre mesi.

NEL SETTEMBRE 2020 l’esecutivo, con un colpo di mano in parlamento, era riuscito a passare un pacchetto di riforme che, a detta sua, avrebbe liberalizzato il settore dell’agricoltura nel Paese a beneficio delle centinaia di milioni di lavoratori del comparto. Più della metà della forza lavoro nazionale è impegnata nell’agricoltura.

Le leggi, secondo il governo, avrebbero facilitato l’ingresso nel settore dei grandi conglomerati della distribuzione privata, dando l’opportunità ai contadini di vendere direttamente a loro i propri prodotti senza servirsi di intermediari. Contestualmente, la liberalizzazione avrebbe fatto saltare anche molte delle tutele minime conquistate dai contadini all’inizio degli anni Sessanta: in particolare, il sistema del «prezzo minimo di vendita», con cui lo Stato garantiva una soglia minima di ricavo dalla vendita di frutta e verdura ai «mandi», i mercati generali dello Stato.

SE PER L’ESECUTIVO le riforme avrebbero proiettato l’intero settore nel futuro, massimizzando la redistribuzione della ricchezza tra i contadini, per le organizzazioni sindacali dei braccianti si rischiava di mandare al massacro contro i grandi gruppi della distribuzione privata la stragrande maggioranza dei lavoratori del settore. L’86 per cento dei contadini indiani, infatti, possiede appezzamenti di terra inferiori a due ettari: troppo poco per contrattare direttamente coi compratori privati il prezzo di vendita. Dal 20 novembre dello scorso anno, centinaia di migliaia di contadini – provenienti principalmente dagli stati settentrionali di Haryana, Punjab e Uttar Pradesh – si sono accampati appena fuori dal perimetro della capitale New Delhi per protestare contro le «tre leggi nere» passate dal governo senza nemmeno consultare i sindacati. I leader della protesta, a più riprese, avevano chiarito che i contadini non se ne sarebbero andati fino a che il governo non avesse accettato di ritirare le leggi senza condizioni.

IN UN ANNO LA PROTESTA dei contadini ha ciclicamente attirato l’attenzione dei media internazionali, anche grazie alla mobilitazione di celebrità come Greta Thunberg e Rihanna. Il governo Modi, che mal sopporta ogni attenzione internazionale diversa dall’adulazione, oltre a condonare la repressione violenta della protesta a opera della polizia – come negli scontri di New Delhi all’inizio del 2021 – ha più volte cercato di screditare il movimento contadino: prima, chiamando in causa una presunta manovra concordata internazionale per «screditare il Paese» in combutta con nuclei dell’indipendentismo sikh all’estero; poi, prendendo di mira direttamente i leader della protesta, chiamati «terroristi, maoisti, sinistrorsi, estremisti, professionisti della protesta, malavitosi…», agenti provocatori ora pilotati dalla Cina, ora dal Pakistan. Un anno dopo, le cose sembrano essere cambiate.

«OGGI PORGO LE MIE SCUSE ai miei connazionali, e voglio dire con cuore sincero e puro che, forse, deve esserci stato un deficit nei nostri sforzi, per cui non siamo stati in grado di spiegare chiaramente la verità ad alcuni contadini», ha detto Modi. Rakesh Tikait, leader e portavoce di una delle principali sigle sindacali del settore, la Bharatiya Kisan Union, ha detto che «lo stato di agitazione non sarà sospeso fino al giorno in cui le leggi non saranno abrogate in parlamento».