L’uso creativo di girato preesistente, spesso amatoriale, può servirsi della materialità del cinema per condurre una riflessione sul tempo, sulla precarietà delle immagini, della memoria, della psiche. Si tratta dunque di una via per innestare uno sguardo personale nella narrazione dell’esperienza collettiva, facendo incontrare la storia sociale e l’immaginazione.
Il varco di Federico Ferrone e Michele Manzolini, presentato alla Mostra del cinema nella sezione Sconfini, prosegue il lavoro già intrapreso in questo senso dai due registi con il precedente Il treno va a Mosca (2013) che ricostruiva il viaggio compiuto nel 1957 dal barbiere comunista Sauro Ravaglia, cinepresa in spalla, dall’Italia alla Russia per partecipare al Festival mondiale della gioventù socialista.

LA NUOVA opera del duo compie un passo ulteriore rispetto alla precedente costruendo un’architettura artistica complessa che intreccia immagini del passato e del presente, diverse fonti letterarie e diaristiche, musiche di repertorio nonché una colonna sonora originale composta da Simonluca Laitempergher. Il film viaggia nuovamente verso Est ma questa volta siamo nel 1941 sul fronte ucraino dove un soldato italiano immaginario racconta l’infrangersi delle speranze di vittoria dell’Asse contro il muro della resistenza sovietica e di un inverno che uccide. Il suo diario, letto dalla voce off del cantante e attore Emidio Clementi, è frutto di un lavoro di scrittura condotto a sei mani dai registi insieme a Wu Ming 2 e ispirato alle vite e ai diari di Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern, Guido Balzani, Remo Canetta, Enrico Chierici, Adolfo Franzini.

A QUESTO testo originale si aggiungono anche, in apertura e verso la chiusura, brani della fiaba Il soldato disertore e il diavolo di Alexander Atanasef letti in russo da una voce femminile. Dal punto di vista visivo, i registi e la montatrice Maria Fantastica Valmori hanno intessuto una trama storica di immagini in 8mm, 9,5mm e 16mm provenienti da quattro diversi fondi conservati presso gli archivi Luce e Home Movies, con un ordito di riprese in digitale realizzate dagli autori nell’Ucraina centro-orientale contemporanea, dove erano stati girati i filmati di Franzini e di Chierici, e dove ancora oggi si combatte. Passato e presente corrono dunque in parallelo come i binari dei tanti treni che attraversano il film e che risuonano anche nello stratificato, e talvolta fin troppo ricco, tappeto sonoro.

NELLA STEPPA invernale, la «steppa bianca» cantata da Nilla Pizzi e Natalino Otto, la vegetazione muore battuta dal vento mentre «i morti sotto terra mettono radici» e le presenze umane assumono progressivamente una consistenza sempre più spettrale. Il soldato narrante conosce la guerra, ha già combattuto in Africa, e questa esperienza riemerge attraverso le violentissime immagini del colonialismo italiano che il regista Luca Ferro utilizzò nel suo film Impressioni a distanza. Anche grazie a esse, il rimosso della storia si apre un varco nel racconto del viaggio verso il fronte sovietico, liberando tutta l’angoscia del soldato e svuotando dal di dentro la sua cronaca che nel finale si fa sempre più astratta e archetipica.