Santiago Mitre era un bambino di cinque anni nel 1985 quando in Argentina, il suo paese, avvenne un fatto inedito: per la prima volta nella storia un tribunale civile mise alla sbarra i militari protagonisti della dittatura che per alcuni anni fece scempio dei suoi concittadini. Si chiama infatti Argentina 1985 il film, in concorso, presentato oggi. Il presidente eletto Alfonsin è al potere da un paio d’anni. Ma sottotraccia il potere sembra essere ancora appannaggio dell’esercito, della marina, dell’aeronautica, della polizia, dei servizi, tutti molto dubbiosi nei confronti del processo democratico. Infatti, i generali delle varie giunte che avevano gestito la dittatura negli anni precedenti erano sì andati a processo, ma presso il tribunale militare che alla fine aveva deciso che non era il caso di procedere. Ecco allora che la vicenda coinvolge Julio Strassera, il fiscal, il pubblico ministero diciamo noi, il quale teme fortemente che la patata bollente, finisca nelle sue mani.
Cincischia, si nega, dubita, si nasconde, anche perché, va detto, durante il periodo della dittatura non era stato un esempio di paladino della giustizia. Ora però che il caso è suo ha poco tempo per tergiversare, deve trovare delle prove irrefutabili per incastrare gli imputati. Non è facile perché c’è chi minaccia e chi boicotta, non può appoggiarsi a nessuno, anzi, il ministro dell’interno di Alfonsin, Troccoli è stato esplicito, quei generali sono intervenuti per salvare il paese dal caos, rigettando quindi le responsabilità sulle vittime. Strassera deve mettere insieme una squadra, affidabile. Praticamente una famiglia, visto che la sua lo supporta e appare ripetutamente.

ECCOLO AFFIANCATO da Luis Moreno Ocampo, rampollo di buona famiglia militar-cattolica, ma deciso a fare giustizia. Dopo il rifiuto di molti colleghi, spesso compromessi, accanto a loro viene reclutato un piccolo esercito di giovani senza esperienza, ma proprio per questo senza preconcetti. Devono contrastare tutte le schermaglie procedurali dei difensori degli aguzzini e convincere un’opinione pubblica in cui il fascismo è ancora molto diffuso. Dopo qualche mese in cui vengono portati testimoni e documentazione di centinaia di casi di torture, assassinii e sparizioni (la cifra approssimativa tra morti e dasaparecidos è di 30 mila persone, i casi portati a giudizio più di 700, quelli affrontati 280) il processo si conclude con la storica arringa di Strassera che termina con un «signori giudici, mai più». La frase che a partire dalle nonne di piazza di maggio si stava cominciando a diffondere in tutta la società civile. Eppure, non fu una vittoria. Certo Videla e Massera furono condannati all’ergastolo, ma qualcun altro prese un certo numero di anni di prigione e altri andarono assolti.

Dopo qualche mese in cui vengono portati testimoni e documentazione di centinaia di casi di torture, assassinii e sparizioni (il processo si conclude con la storica arringa di Strassera che termina con un «signori giudici, mai più»

E QUI il film si ferma ricordando che quel primo processo era stato come l’apertura del vaso di Pandora, perché dopo di allora sono diventati migliaia gli episodi perseguiti dalla giustizia in difesa dei diritti umani violati, e le condanne inflitti agli aguzzini perché come ha detto Strassera «il sadismo non è una ideologia politica né una strategia militare, è solo una perversione morale, di un potere feroce, clandestino e codardo». Per contrastare la linea difensiva che affermava trattarsi di una guerra. Arrivando anche a citare Dante che li avrebbe condannati come tiranni al settimo girone infernale. Quel che invece non ci dice il film (anche perché già così supera abbondantemente le due ore) è che Videla e Massera dopo cinque anni di galera vennero liberati da Menem grazie a un vergognoso indulto. Revocato perché incostituzionale nel 2007, così che i condannati tornarono in galera.

MITRE dice di ricordare il boato e l’entusiasmo che quella prima sentenza aveva suscitato, pur con tutti i suoi limiti. E per riannodare i fili di una storia che avrebbe potuto risultare un po’ pesante, costella il suo racconto di piccole sottolineature buffe o ironiche volte a stemperare la tensione di una vicenda a suo modo spaventosa. Mette in gioco il figlioletto di Strasser come spia dai calzoni corti per ottenere informazioni, ma soprattutto per dare metaforicamente una possibilità alle nuove generazioni. Non mostra mai immagini crude, solo la riproposizione delle testimonianze delle vittime, già di per sé terribili o angoscianti. Le uniche immagini «vere» compaiono alla fine, come spesso accade per i film che partono da episodi reali, in cui si vedono i protagonisti della storia.