Martedì, in occasione del primo anniversario della presa del potere da parte del generale Abdel Fattah al-Burhan, migliaia di persone sono scese in piazza in tutto il Sudan, per chiedere che i militari abbandonino il governo e ricominci la transizione democratica. C’è stato anche un morto che si aggiunge alle cento vittime civili uccise nelle proteste dal colpo di stato a oggi.

A SEGUITO delle manifestazioni la polizia sudanese ha rilasciato una dichiarazione in cui chiedeva al ministero della Giustizia di conferire alle forze dell’ordine poteri eccezionali per sedare i «gruppi ribelli organizzati».

Associazioni per i diritti umani e manifestanti ritengono che il messaggio fornisca una scusa alle forze di sicurezza per commettere impunemente violazioni dei diritti umani. Gli stessi gruppi per i diritti umani e i manifestanti chiedono anche a gran voce che i leader delle forze armate siano puniti per la violenta repressione delle proteste di piazza sia prima della caduta di el Bashir che dopo il colpo di stato di al-Burhan.

Per procedere alla formazione di un governo di transizione civile-militare, sembra che sia sul tavolo delle trattative un’amnistia per il generale al-Burhan e il comandante del gruppo paramilitare Rapid support forces (Rsf), Mohamad Hamdan Dagalo.

ORMAI le organizzazioni della società civile hanno una forte sfiducia nell’esercito e ne chiedono la totale esclusione da un possibile governo di transizione. «Nessun negoziato, nessun dialogo, nessun partenariato», riferendosi alle richieste popolari per un governo pienamente civile, è stato lo slogan più cantato nelle proteste di martedì. All’interno dello schieramento di opposizione però le spaccature si fanno sempre più profonde.

Da una parte chi, come il Partito comunista, sostiene la necessità di escludere l’apparato militare dalla formazione di un governo di transizione, e dall’altra chi, come parte del Forces of freedom and change (Ffc), pensa che un potere condiviso possa essere una buona soluzione di transizione. Questa spaccatura è anche uno dei mezzi con i quali il generale al-Burhan giustifica il ritardo nella composizione di un governo civile.

In un discorso tenuto a luglio, il generale ha accusato la parte civile di essere responsabile della situazione di stallo sia nel dialogo nazionale che nella formazione del governo di transizione a causa delle sue divisioni interne. È ormai opinione diffusa che al-Burhan, nonostante le dichiarazioni circa l’intenzione del governo militare di lasciare spazio a quello civile, voglia mantenere il potere.

Opinione sostenuta da diverse azioni intraprese dal generale come gli attacchi alla commissione d’inchiesta sui massacri compiuti nelle manifestazioni del 2019 e lo smantellamento del Regime dismantletment committe (Rdc), creato per prendere provvedimenti contro la corruzione dilagante.

QUEST’ULTIMO ATTO è indicativo dell’intenzione di mantenere le cose così come sono: oltre 400 entità, tra aziende e società finanziarie, sono controllate dall’élite militare. L’Rdc aveva cominciato a lavorare su questa fitta rete emanando 500 provvedimenti di sequestro e ordinando la rimozione di centinaia di persone dalle proprie posizioni. A un anno dal colpo di stato e a tre anni dalla destituzione del dittatore Omar Hassan el Bashir, il Sudan rimane uno stato a guida militare con poche prospettive di un cambiamento democratico.