Non si allenta in Sudan la pressione della piazza sul Consiglio di transizione militare, che una volta tolto di mezzo il presidente Omar al Bashir – agli arresti in “luogo sicuro” da giovedì 11 aprile – pensava di poter gestire agevolmente il potere fino al voto, immaginato però non prima del 2021.

Troppo forte da parte dei manifestanti il senso di beffa, dopo il ciclo intensivo di manifestazioni che in quattro mesi ha portato alla caduta del regime, o quantomeno della trentennale presidenza di al Bashir. Il sit-in di fronte al palazzo delle Forze armate a Khartoum prosegue e ieri ha resistito a un nuovo tentativo di sgombero: circa 5 mila persone – molti giovani e ancora tantissime donne – hanno formato una catena intorno all’edificio simbolo del vecchio e a questo punto anche del nuovo corso, gridando “libertà”, chiedendo ai militari di difendere i manifestanti anziché aggredirli e impedendo di fatto alle ruspe di rimuovere le barricate.

“Invitiamo tutti a raggiungere la zona per proteggere la vostra rivoluzione e i risultati conseguiti”, recitava un comunicato emesso in giornata. Il presidio continua h24 e resta inamovibile il no a una transizione gestita dai militari da parte dell’Associazione professionisti (Spa), che ha guidato le proteste insieme al Raggruppamento unionista, alla National Consensus Alliance, alla coalizione Sudan Call che tiene insieme 22 sigle dell’opposizione e altri.

Non è bastato dunque il passo indietro del ministro della Difesa e vicepresidente Awad Ibn Auf, che si era intestato il colpo di mano; e ha destato gioia ma non ha convinto a liberare le strade neanche la sostituzione del generale Salah “Gosh” Abdallah, nemico n. 1 dei manifestanti per il suo ruolo a capo del National Intelligence Security Service (Niss), l’organo supremo di controllo e repressione; con soddisfazione è stato poi accolto il ritiro del coprifuoco nelle ore notturne e ancor più la notizia della liberazione di migliaia di persone arrestate durante le manifestazioni; da ultima, l’assicurazione che nessun membro del Congresso nazionale sudanese, il partito di governo, avrebbe preso parte all’esecutivo transitorio ha scaldato i cuori. Ma fino a quando la giunta militare non rinuncerà al suo progetto di “ordine e sicurezza”, la mobilitazione va avanti. Al netto dei colloqui che sarebbero in corso per trovare uno sbocco all’impasse.

Il movimento chiede giustizia per i manifestanti uccisi dalle forze di sciurezza (16 solo nei tre giorni precedenti al golpe) e lo sradicamento del deep state che ha sorretto al Bashir in questi trent’anni. E da ieri ha dalla sua parte in modo più chiaro che mai la comunità internazionale: l’Unione europea con il suo rappresentante a Khartoum, Jean-Michel Dumond, e con spirito ancor più volitivo la Gran bretagna, hanno incontrato in rapida sequenza  i rappresentanti della giunta militare, raccomandandosi di evitare l’uso della forza per sedare le proteste pacifiche. L’ambasciatore britannico Irfan Siddiq ha aggiunto che “il Sudan ha bisogno di una transizione ordinata verso un governo civile che porti a  elezioni in un tempo ragionevole”. Londra parla e agisce anche per conto della troika formata anche da Usa e Norvegia, la cui credibilità però è stata messa a dura prova nel processo sfociato negli “accordi di pace” e nella secessione del Sud Sudan, che non ha poi evitato un sanguinoso conflitto nel più giovane degli stati africani.