Rischia di ribaltarsi in Perù la nota citazione marxiana che la storia si ripete, prima come una tragedia, poi come una farsa. In questo caso la farsa, l’imitazione in sedicesimo di Donald Trump da parte della internazionalmente discreditata Keiko Fujimori, apre il campo a una tragedia politico-sociale.

Non solo per il clamore di sciabole auspicato dalla destra e suscitato soprattutto da ufficiali in congedo per impedire che il maestro Pedro Castillo, definito «comunista» e/o «terrorista», sia formalmente nominato presidente dopo la sua vittoria elettorale di misura (uno scarto di 40mila voti) il 6 giugno. Per ora, il vertice delle Forze armate, che ovviamente ha lo sguardo puntato a Washington, ha realizzato che il golpe “non s’ha da fare”. Juan Gonzalez, uomo forte del presidente Biden per l’America latina, ha confermato la validità delle elezioni presidenziali peruviane. Di conseguenza, l’Organizzazione degli Stati americani (Oea) si è tirata indietro e il suo segretario Luis Almagro, che aveva avallato il golpe del 2019 contro Evo Morales in Bolivia, questa volta non si è fatto trovare dagli emissari di Keiko.

 

Keiko Fujimori (Ap)

 

Anche le polveri di un lawfare sperimentato in atri paesi della regione, in primis il Brasile, si stanno dimostrando bagnate. Centinaia di ricorsi presentati dai migliori studi legali di Lima , pagati dalle destre per avallare le accuse di «clamorosi brogli elettorali» lanciati da Fujimori, sono stati dichiarati nulli. Restano, è vero, le fake news di un sistema di media massicciamente di destra – l’ultima, l’accusa di «finanziamento illegale» alla campagna di Castillo.

Infine, la gerarchia ecclesiale ha rifiutato di avallare i suoi ricorsi e appelli, consigliando «paternamente» a Keiko di non usare i sentimenti religiosi della gente come strumenti di una politica di partito o caudillista.

La conferma di Castillo come nuovo presidente del Perù sembra dunque dietro l’angolo. Ma avverrà dopo un mese di accuse politiche, polemiche razziste, fake news, manifestazioni di strada, in un paese politicamente spaccato in due per classe e «razza», tra città e campo, tra cultura “nobile” bianco/europea e meticcia/andina.

Il governo di Castillo dovrà tener conto di un Congresso che gli sarà maggioritariamente avverso. Perú Libre, il suo partito, dispone solo di 37 seggi su 130. Dunque avrà difficoltà a far passare le sue riforme. Inoltre il fujimorismo cercherà con tutti i mezzi a sua disposizione di dichiarare – ancora una volta – la vacanza presidenziale.

Nei giorni scorsi, senza rinunciare al suo programma sociale di riforme, il neopresidente si è dimostrato propenso a una linea conciliatrice con i settori che, pur avendo appoggiato Fujimori nel ballottaggio delle presidenziali, sono contrari all’autoritarismo di Forza popolare e dei compagni di strada di Keiko.

Ma non c’è da farsi illusioni. La democrazia difesa in Perù – come in Colombia o in Cile – da parte di «quelli che stanno in basso» si è convertita in un sistema pericoloso per gli ideologi neoliberisti, che sono stati democratici fino a quando il voto non ha posto a rischio il consenso alle privatizzazioni, al libero mercato, all’estrattivismo. La reazione di Keiko Fujimori, come la sanguinosa repressione del presidente colombiano Duque, è un segnale che il neoliberismo va degenerando verso un complesso neofascismo.