L’hanno paragonata a Donald Trump, ma Keiko Fujimori non ha bisogno di imitare nessuno. Perché dopo essersi dedicata in passato a destabilizzare il governo prima di Pedro Pablo Kuczynski, colpevole di averla sconfitta al ballottaggio nel 2016, e poi di Martín Vizcarra, colpevole di aver sciolto il Congresso da lei controllato, era prevedibile che non accettasse altro risultato che la vittoria. E così, se a spoglio ancora in corso aveva già iniziato a denunciare presunti brogli, malgrado il giudizio degli osservatori internazionali sulla regolarità del processo, di sicuro non mollerà la presa finché ne avrà la possibilità.

CONCLUSO LO SCRUTINIO e terminata anche la revisione delle schede contestate, è tuttavia il candidato di sinistra Pedro Castillo a risultare vincitore, benché per soli 44.058 voti: 50,125% contro il 49,875% della figlia dell’ex dittatore. Il Tribunale nazionale elettorale (Jne) non proclamerà però i risultati definitivi finché non saranno risolti i ricorsi di nullità presentati dalla Signora K: 942 in tutto, di cui tuttavia solo 165 arrivati entro i termini stabiliti e 91 dei quali già respinti.

In realtà, il Jne aveva provato a cambiare in corsa le regole del gioco, decidendo arbitrariamente di ampliare la scadenza dal 9 all’11 giugno. Una misura interpretata come un favore alla candidata di Fuerza Popular, decisa a ottenere l’annullamento di 200mila preferenze espresse in quelle province rurali in cui Castillo aveva riportato una maggioranza schiacciante. Ma le reazioni, soprattutto delle organizzazioni indigene andine e amazzoniche, erano state tali da convincere il Jne a fare marcia indietro, lasciando senza effetto un provvedimento chiaramente anti-costituzionale.

«NON SOLO NEGANO la nostra esistenza, ora vogliono pure annullare i nostri voti», aveva dichiarato Lizardo Cauper, presidente dell’Aidesep (Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana), riferendosi in particolare al portavoce di Fuerza Perú Fernando Rospigliosi, giunto a dichiarare che nel paese i popoli indigeni sono un’invenzione delle ong.

Ma se le organizzazioni indigene sono pronte a mobilitarsi, nutrendo crescenti sospetti sul Jne, non ci sono neppure certezze che, una volta esaurite le vie legali, la Signora K si rassegnerà, avendo già dimostrato di essere pronta a tutto in quella che ha definito la «dura battaglia che stanno combattendo i peruviani per non cadere nelle mani del comunismo». Battaglia in cui il fujimorismo, «che 30 anni fa ha bloccato Sendero luminoso», avebbe il compito di rappresentare oggi «tutti i peruviani nel tentativo di impedire che il Perù si converta in un Venezuela».

È PROPRIO IL COMUNISMO, del resto, lo spauracchio agitato dai fujimoristi, i quali peraltro, sulle reti sociali, hanno invitato a parlare di democrazia e di libertà ma senza citare il nome della loro candidata, in quanto, ammettono, «Keiko non vende». E hanno promosso presidi di protesta di fronte alle abitazioni del presidente del Jne Luis Salas Arenas, del direttore del quotidiano La República Gustavo Mohme Seminario, colpevole di non essere allineato al fujimorismo, e del procuratore José Domingo Pérez, che ha chiesto per lei una condanna a 30 anni di carcere per i reati di riciclaggio di denaro, organizzazione criminale e ostruzione alla giustizia e che ne ha ora persino sollecitato un nuovo arresto preventivo.

NON MANCANO NEPPURE gli espliciti inviti al golpe, come quello espresso da un nutrito gruppo di ex comandanti militari che esorta il Comando congiunto delle forze armate a impedire «che la massima autorità del paese sia designata in maniera illegale e illegittima» e a «disconoscere come presidente qualcuno che sia stato nominato violando la Costituzione». E non è stato da meno il parlamentare di Renovación Popular e ammiraglio in pensione Jorge Montoya, il quale ha indicato l’annullamento del processo elettorale e la convocazione di nuove elezioni come «soluzione più prudente per evitare la possibile e imminente ingovernabilità».

È stato sommerso tuttavia da un diluvio di critiche (oltre che raggiunto da una denuncia penale), accompagnate da un pronunciamento del Consiglio di stato, composto dai vertici dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, in difesa degli organismi elettorali, i soli «a cui spetta risolvere qualunque controversia posta» dalle elezioni.

Intanto per oggi è prevista una grande marcia a sostegno di Castillo, affinché venga riconosciuta senza più indugi la sua vittoria.