Sul divano del salotto Nina resta immobile per quasi tre ore, le mani unite sulle gambe incrociate, la schiena dritta. Non si gira quando suo nipote Nikita comincia a piangere sulla coperta rosa di pile. Accenna solo un sorriso di riconoscenza ad Aleona quando le porge una tazza di té, poi torna seria: ha lo sguardo affilato di chi conosce il peso di ogni parola, che porta con sé da quando ha chiuso l’ultima volta la porta di casa.

AL DI QUA DEL CONFINE, la guerra in Ucraina ha il volto di Nina. È il volto della sofferenza silente di chi la guerra la subisce soltanto: sono le donne accalcate alle frontiere, in coda per un pasto preparato da mani estranee, pronte a tornare indietro per stare vicino a mariti, padri, fratelli, disposte anche a combattere. Ha gli occhi fieri di Nina, la guerra, che a sentir nominare Odessa fremono di dolore e di rabbia: «Dim ye dim, casa è casa, e non c’è niente che faccia più male di saperla ferita».

Dall’Ucraina Nina Zhemchuzhnykova, 49 anni, se n’è andata il 4 marzo, insieme a sua figlia Nikol, 12, e la nuora Diana, 22, con Nikita di 6 mesi. Prima dell’invasione russa Nina lavorava aalla reception in un ospedale di Odessa, Nikol frequentava la prima media e Diana era impiegata nel magazzino di un Auchan mentre seguiva un corso di pedagogia.

La loro è la storia di un dramma familiare come tanti altri, che si consuma nel silenzio di una pianura slavata della Moldavia. Nina e Nikol hanno lasciato i mariti a Odessa, combattono tutti e due nell’esercito ucraino. Diana e Stanislav si sono sposati da poco: il telefono di lei è pieno di fotografie del loro matrimonio, che sfoglia di continuo.

NINA E LE ALTRE se ne sono andate spinte dalla paura dei bombardamenti. Sono arrivate insieme alla frontiera di Palanca, villaggio di duemila persone nel sud della Moldavia: è il posto più vicino per chi scappa da Odessa, che dista a meno di 60 km. Ad attenderle c’erano Eugen e Aleona Cociug, coppia di lontani parenti che da allora le ospita in casa, dove le incontriamo insieme al prete ortodosso Mihail Draganescu e alla madre di Eugen, Valentina, che parlano italiano. Appena è iniziata la guerra i Cociug sono andati in Comune per iscriversi nelle liste di famiglie disponibili ad accogliere rifugiati ucraini. Sono elenchi che il sindaco di Palanca Dimitrou Cozlovschi stila di persona per tenerne il conto e per distribuire aiuti umanitari e contributi governativi stanziati per l’accoglienza diffusa.

In Moldavia funziona in gran parte così. Dal 24 febbraio sono entrati più di 435mila ucraini, secondo i dati aggiornati al 26 aprile sul portale dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Un numero enorme per uno stato di appena 2,6 milioni di abitanti, che ha il Pil pro capite più basso d’Europa e da trent’anni fa i conti con una regione separatista filorussa, la Transnistria, dove nei giorni scorsi ci sono state diverse esplosioni. Tante persone hanno attraversato il Paese per andare altrove, se sono rimaste è perché, come le Zhemchuzhnykova, hanno parenti lì, sono troppo povere per proseguire il viaggio o non vogliono allontanarsi da casa. «Anche noi vorremmo tornare, ma mio marito ce lo impedisce – racconta Diana -. Fino a qualche settimana fa la situazione era più tranquilla. Ora neanche Odessa è più un posto sicuro».

DOPO I PRIMI GIORNI DI CAOS, a supportare la Moldavia sono arrivate le ong locali e internazionali, le agenzie governative e le grandi organizzazioni come l’Unhcr, con un team guidato dall’italiana Francesca Bonelli. La base dell’Unhcr è la capitale Chisinau, dove sono stati attivati diversi centri per l’accoglienza, tra i quali il principale è il polo fieristico MoldExpo. «La nostra priorità è aiutare il governo moldavo a rispondere in modo efficace a questa situazione, con la nostra expertise e le nostre risorse – spiega Bonelli -. Abbiamo attivato 103 centri in tutto il Paese, per un totale di 10mila posti letto, che possono diventare 20mila. E disponiamo di tende di emergenza per altre 25mila persone».

 

L’interno di una tenda nel campo profughi di Palanca (foto di Maria Giulia Trombini)

 

PER BONELLI IL DATO impressionante è però un altro: «In Moldavia i profughi ucraini, di cui il 45% sono bambini, sono 97mila. Ci ha sorpreso constatare che la maggior parte di questi sono ospitati da famiglie, che pur avendo poche risorse stanno dimostrando una solidarietà incredibile». Per loro il World Food Programme, in coordinamento con l’Unhcr, ha attivato il programma Cash Assistance, che offre 190 dollari al mese ai cittadini che ospitano almeno due profughi ucraini. Questi ultimi, a loro volta, possono richiedere all’Unhcr e ai suoi partner 120 dollari al mese a persona grazie al Cash Assistance per rifugiati.
Anche a Palanca prevale il sistema di accoglienza diffuso. Stando alle liste del sindaco Cozlovschi, dall’inizio della guerra sono più di trecento le famiglie che hanno accolto ucraini. Come nota lui stesso però «si tratta di un numero sottostimato, perché comprende solo residenti che sono venuti in Comune. Chi aveva parenti non ha avuto bisogno di passare da qui». Così è per la famiglia Cociug, in realtà la seconda soluzione per Nina, Nikol e Diana Zhemchuzhnykova: «Il padrino di Diana, anche lui di Palanca, non ci ha volute accogliere – dice Nina -. È filorusso e non crede che la situazione in Ucraina sia colpa di Mosca. Anche i miei parenti che vivono vicino a San Pietroburgo mi dicono che le foto che gli mando sono fake».

LA DINAMICA FAMILIARE riflette quella di una popolazione scissa tra chi rimpiange l’Unione sovietica e chi invece guarda all’Unione europea, cui la Moldavia ha chiesto di essere ammessa poco dopo l’invasione russa. «Anche qui alcuni canali televisivi mostrano una realtà distorta, fanno disinformazione sulla guerra – spiega Eugen Cociug -. Dicono che i rifugiati creano problemi e rubano i nostri soldi».

Eppure il legame della Moldavia con l’Ucraina è vivido e concreto. Nel salotto riallestito per ospitare altre due famiglie lo si percepisce anche nel tono secco con cui Aleona Cociug racconta che quasi tutti in Moldavia hanno parenti al di là del confine ucraino. Se i russi dovessero arrivare nel suo Paese, dice, «distruggerebbero tutto, come stanno già facendo. Gli ucraini sono nostri fratelli di sangue. Il loro dolore è il nostro».

IL TIMORE DI UNO SCONFINAMENTO del conflitto è un sentimento diffuso. La Moldavia viene spesso indicata come il prossimo Paese che potrebbe subire un’invasione della Russia, sia per la tensione in Transnistria, sia perché Mosca l’ha sempre considerata come parte della propria sfera di influenza. La situazione potrebbe precipitare se l’attacco su Odessa dovesse intensificarsi, provocando un flusso di profughi più elevato rispetto a quello di queste settimane. In quel caso il problema diventerebbe anche sanitario: in tutto il distretto di Stefan Voda, di cui fa parte anche Palanca, c’è un solo ospedale, con due sale operatorie.

«Se le cose dovessero peggiorare sarà la struttura più coinvolta – conferma Alessandro Verona, medico a capo della ong italiana Intersos a Palanca e Tudora -. Odessa ha più di un milione di abitanti, troppi a confronto dell’intera Moldavia. Per questo restiamo qui: aspettiamo e ci attrezziamo per qualcosa che speriamo non accada». Intersos, accreditata con il ministero della Salute moldavo, a Palanca gestisce una clinica mobile con un medico disponibile. La base si trova a circa due chilometri dalla frontiera, in uno spazio con tendopoli di emergenza e una zona di accoglienza. Nei primi giorni di guerra arrivavano mille o duemila persone al giorno, con un picco di tremila l’8 marzo.

 

Rifugiati ucraini in arrivo al centro di accoglienza di Palanca (foto di Francesco Malavolta)

 

NELLE ULTIME SETTIMANE gli ingressi sono calati, oscillano tra i 300 e i 400. A metà aprile l’atmosfera sembrava serena. Le tende blu capaci di ospitare fino a 150 persone erano vuote, i volontari della tenda principale distribuivano cibo preparato dai locali. L’Unhcr ha fornito funghi termici e allestito una zona gioco per i bambini, Moldova for Peace aiuta nei trasporti. C’è anche il wi-fi, per comunicare l’arrivo a chi è rimasto. Non mancano però le criticità: “Oltre la metà delle persone che abbiamo visitato presenta una patologia cronica, e non ha la terapia con sé, o una vulnerabilità sociale – spiega Verona -. Se dovessero iniziare ad arrivare feriti di guerra incrementeremo i turni di lavoro sette giorni su sette. Servirebbero però persone in più».

In questa sorta di tempo di seconda mano, che pare sospeso a chi lo vive, Nina, Nikol e Diana Zhemchuzhnykova ogni giorno vanno a sistemare la casa a Palanca che era della nonna di Diana. Non ci vive più nessuno, ma è diventato quasi un rito di sopravvivenza. «Per il resto, gioco con Nikita, seguo l’università online e, quando può, parlo con Stan su FaceTime» dice Diana. Anche Nikol le dà una mano con il bambino, e a guardarla sfuggente nella sua camicia a quadri troppo larga ci si chiede se le manca la scuola, se spera di tornarci nella sua città, prima o poi.

SANNO DI ESSERE FORTUNATE rispetto ad altri: oltre ai loro risparmi, possono contare su un contributo economico dato dal governo ucraino ma soprattutto sull’ospitalità di parenti che non chiedono nulla. «Le giornate scorrono lente. Ma possiamo solo stare così, aspettando che la guerra finisca – dice Nina -. Anche se non crediamo davvero che succederà presto».