Di Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, gli zapatisti non si sono mai fidati: «potranno cambiare il capataz, i servitori e i capisquadra, ma il proprietario continuerà a essere lo stesso», dicevano mentre il grosso della popolazione celebrava il suo trionfo elettorale oltre due anni fa. E i fatti stanno dimostrando che avevano ragione loro.

DELLA TANTO PROPAGANDATA «quarta trasformazione» è infatti difficile trovare tracce nella realizzazione di opere ambiziose quanto devastanti, contestatissime dalle comunità interessate, come il Tren Maya, il megaprogetto di linea ferroviaria chiamato a collegare le principali aree turistiche del Sud del paese, o come il Corredor Transístmico, che prevede la realizzazione di sei parchi industriali e agro-industriali, l’adeguamento dell’attuale tratto ferroviario, la costruzione in parallelo di un corridoio autostradale, o come il Proyecto Integral Morelos, l’aeroporto internazionale di Santa Lucía o la raffineria Dos Bocas.
Progetti, tutti questi, che smentiscono nella maniera più clamorosa i solenni proclami ambientalisti del presidente: «Per convinzione – ha dichiarato López Obrador il primo settembre – abbiamo deciso di prenderci cura dell’ambiente come mai hanno fatto i governi precedenti e come neppure rivendicano gli pseudoecologisti che tanto ci attaccano», quei difensori dell’ambiente che il presidente chiama «radicali di sinistra che non sono altro che conservatori».

Nulla di nuovo, né di ambientalmente sostenibile, c’è in realtà negli illegittimi e fraudolenti processi di consultazione indigena – tutt’altra che «previa, libera e informata» come previsto dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro – su cui il governo fa leva per giustificare l’esecuzione dei suoi megaprogetti. O nelle promesse fatte e non mantenute, come quella relativa al Proyecto Integral Morelos, che, iniziato nel 2010 durante il governo di Felipe Calderón, prevede, tra l’altro, la costruzione di una centrale termoelettrica nella comunità di Huexca, di un acquedotto e di un gasdotto che dovrebbe passare per le falde del vulcano Popocatépetl, malgrado la sua costante attività sismica.

UN ENORME PROGETTO energetico che interessa gli stati di Puebla, Morelos e Tlaxcala coinvolgendo, insieme a imprese spagnole, anche l’italiana Bonatti. E che per Amlo ora è irrinunciabile, malgrado in campagna elettorale si fosse impegnato ad archiviarlo, perché, diceva, sarebbe come costruire «una centrale nucleare a Gerusalemme».

Attivisti e contadini in marcia a Mexico City contro il Tren Maya / foto Ap

Neppure l’assassinio dell’attivista náhuatl del Congresso nazionale indigeno Samir Flores Soberanes – ucciso a colpi di arma da fuoco il 20 febbraio del 2019 proprio per la sua lotta contro quel progetto – gli ha fatto cambiare idea.

E quanto il presidente sia deciso ad andare avanti è emerso chiaramente, il 23 novembre scorso, dallo sgombero, in piena notte, da parte di 300 elementi della guardia nazionale, più un altro centinaio di agenti della polizia statale e municipale, del presidio zapatista di San Pedro Apatlaco che da ben quattro anni bloccava i lavori della centrale, destinata a contaminare le acque del Río Cuautla.

E CIÒ MALGRADO L’ESISTENZA di 19 ricorsi presentati dal Fronte dei popoli in difesa della terra e dell’acqua di Morelos, Puebla e Tlaxcala, il quale non esita a definire il presidente come un traditore e un bugiardo. Non è vero, afferma, che la centrale risponda a una necessità energetica del paese, visto che «il Messico ha già una capacità di generazione elettrica superiore del 40% a ciò di cui ha bisogno», come neppure è vero che il progetto produrrà maggiore occupazione, considerando che «la centrale creerà circa 30 posti di lavoro fissi, a fronte degli oltre 15mila contadini e braccianti che dipendono dall’acqua del Río Cuautla. Con questa megaopera – conclude il Fronte – López Obrador tradisce quella che aveva annunciato come bandiera del suo governo: «Prima i poveri».

E sono gli interessi del grande capitale, non certo quelli dei poveri, ad essere in gioco nel progetto noto come Tren Maya, di cui le comunità indigene contestano persino il nome, dal momento che a volerlo non è stato certo il popolo Maya, il quale, al contrario, lancia l’allarme sull’impatto ambientale che l’opera avrebbe su tutto il sudest messicano, compromettendo gli ecosistemi naturali e il patrimonio culturale dei cinque stati interessati dai lavori (Chiapas, Tabasco, Campeche, Yucatán y Quintana Roo). «Lungi dal favorire lo sviluppo dei popoli originari, questa megaopera porterà, come già sta facendo, a incrementare esponencialmente la privatizzazione della proprietà sociale della terra», denunciano 16 organizzazioni indigene e contadine, sottolineando come la manodopera a basso costo fornita dalle comunità «servirà a nient’altro che all’arricchimento delle stesse imprese costruttrici».

NEL LUNGO BRACCIO DI FERRO condotto contro il governo a colpi di ricorsi giudiziari, le comunità indigene di Campeche, Yucatán e Quintana Roo hanno però messo a segno un punto importante, ottenendo la sospensione dei lavori relativi al secondo tratto del Tren Maya, da Escárcega a Calkiní, a Campeche. Una misura che in realtà porta con sé anche lo stop alle opere previste nella Fase 1 del progetto – con tanto di distruzione di 800 ettari di bosco -, la cui valutazione di impatto ambientale era già stata approvata dalla Segreteria dell’Ambiente e delle risorse naturali, convinta che lo sviluppo dell’opera, che pure attraverserà ben 23 aree protette, non comprometta «l’integrità funzionale degli ecosistemi presenti nel Sistema ambientale regionale», né generi «un impatto ambientale rilevante».

La lotta delle comunità indigene contro i megaprogetti – il volto più aggressivo del modello estrattivista predatorio portato avanti dal governo di López Obrador – non sembra tuttavia incidere granché sulla popolarità del presidente, il quale, a due anni dal suo insediamento, gode ancora di un tasso di approvazione del 60%.