«Non abbiamo altra scelta che togliere il cibo agli affamati per nutrire chi sta morendo». La scorsa settimana al Consiglio di Sicurezza dell’Onu le parole di David Beasley, direttore esecutivo del World Food Programme, hanno tentato di ricordare alla comunità internazionale che in Yemen si muore ancora di fame.

Una crisi umanitaria strutturale a causa della guerra lanciata dalla coalizione sunnita a guida saudita ed emiratina nel 2015 e che ora gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina rischiano di aggravare.

Un destino che lo Yemen condivide con una buona fetta di Medio Oriente e Nord Africa, che con 36 milioni di tonnellate l’anno sono tra i principali destinatari dell’export di Russia e Ucraina, produttori di un quarto del grano a livello globale.

Ci sono interi paesi che reggono il consumo interno di pane, cous cous, paste sulle importazioni da Mosca e Kiev. Ora il timore, affatto peregrino, è di un crollo degli arrivi e un’impennata dei prezzi in paesi che già di per sé vivono crisi economiche gravi (l’Egitto, la Tunisia, la Siria) o gravissime (il Libano, lo Yemen).

Il costo del grano ha già raggiunto un nuovo record giovedì scorso, primo giorno di operazione militare: 344 euro per tonnellata sul mercato europeo. Numeri che seguono a quelli di due anni di pandemia (secondo il Fondo monetario internazionale, tra aprile 2020 e dicembre 2021 il costo del grano era già salito alle stelle, +80%) e che subiranno un’altra impennata a causa delle sanzioni internazionali a Mosca.

L’invasione russa per decine di milioni di persone intorno al mar Mediterraneo può significare meno pane in tavola. Letteralmente. E magari una ripresa di proteste sociali mai sopite, ma che covano sotto la cenere, da Khartoum a Tunisi, da Baghdad ad Algeri (dopotutto la mobilitazione sudanese che nel 2019 ha deposto Omar Bashir è partita da un aumento del costo del pane). Non è un caso che la pita, la classica pagnotta mediorientale, in dialetto egiziano si chiami aish, la stessa parola di vita.

Alcuni esempi. La Siria: già alle prese con una seria crisi alimentare dovuta a una guerra civile lunga un decennio e ancora viva nella provincia occidentale di Idlib, a sanzioni internazionali e alla mancata ricostruzione, dal 2011 non riesce più a produrre il grano necessario al fabbisogno interno.

Lo acquista da fuori: 1,5 milioni di tonnellate l’anno, per lo più provenienti dall’alleato russo. Al momento, ha fatto sapere il governo, nei magazzini ce n’è abbastanza per due mesi.

Peggiore la situazione in Libano: l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020 ha letteralmente squagliato i silos dove venivano immagazzinate fino a 45mila tonnellate di grano, un importante spicchio delle 650mila importate annualmente (di cui il 50% dall’Ucraina).

A disposizione c’è grano per un solo altro mese. Facile immaginare che il prezzo aumenterà, mentre la popolazione continua a scivolare in una povertà capillare che impedisce a centinaia di migliaia di famiglie di mettere insieme il pranzo con la cena.

Costo già salito anche in Tunisia, che conta su Russia e Ucraina per il 60% del grano che consuma, secondo i dati forniti dal ministero dell’Agricoltura, e già indebolita dalla siccità che colpisce il Nord Africa e dalla crisi politica interna. Produrre internamente per molti contadini non conviene: il governo acquista a prezzi troppo bassi. Nei magazzini ce n’è a sufficienza per arrivare a giugno.

Per Algeria ed Egitto le tempistiche sembrano migliori: sei mesi di forniture a disposizione il primo (di cui la metà di produzione intern)a, nove il secondo (identiche proporzioni). Il Cairo però acquista da Russia e Ucraina oltre l’85% del grano consumato (13,3 milioni di tonnellate l’anno) e già teme per un ovvio aumento dei costi: «Non saremo in grado di comprare più ai prezzi pre-crisi», ha già avvertito il portavoce governativo Nader Saad immaginando di dover bussare alla porta degli altri fornitori, dagli Stati uniti all’Australia.

Non una buona notizia in un paese – storicamente produttore di grano, ma in caduta libera a causa della crescita della popolazione e dell’abbandono delle campagne – che negli ultimi anni, per volere dell’attuale governo al-Sisi e delle riforme neoliberiste e di austerity indicate dal Fmi ha drasticamente ridotto i sussidi per i poveri su prodotti di prima necessità come farina, latte, cereali. Non del tutto cancellati: nel 1977 ci provò Sadat, scoppiò la rivolta del pane.

Il granaio ucraino è decisivo anche per lo Yemen. Da cui l’appello di Beasley: «Sarà l’inferno in terra», ha detto lo scorsa settimana ai membri del Consiglio di Sicurezza, aggiungendo il tassello del prevedibile aumento del costo del petrolio (già oltre i 100 dollari al barile) che si trascina dietro quello del carburante.

Un mix letale in un paese devastato per cui non sono valse le richieste del Wfp: servirebbero almeno 3,85 miliardi di dollari per far fronte alla fame, ma i donatori internazionali nel 2021 sono riusciti a raggranellarne appena la metà.