Alberghi e guesthouse chiusi, cittadini stranieri a cui era consigliato di stare via da Monrovia per qualche giorno o di tornarsene al proprio paese fino a nuovo ordine. Una nazione intera, la Liberia, che per giorni si è preparata – e preoccupata – alla grande protesta del 7 giugno 2019: «Save the State» l’hanno chiamata gli organizzatori, salva lo Stato.

LA RABBIA DI UNA NAZIONE stremata e impoverita urlata contro i totem locali dell’inefficienza: la corruzione e il sistema di potere, politico ed economico, che non funziona e che soffoca tutti.

 

foto Afp

 

Nella torre d’avorio, il palazzo presidenziale in fase di magnifica ristrutturazione, il presidente George Manneh Weah, ex-calciatore nato nelle township e divenuto ricchissimo grazie al proprio talento, e il suo entourage. Un mito intoccato per tantissimi liberiani, compresi molti manifestanti: «Noi amiamo George, è uno di noi. È il nostro esempio, la nostra speranza» dice al manifesto Robert, autista di kekeh – apecar usati come taxi – che sfreccia nel traffico impazzito della capitale liberiana: «Il problema è che il sistema è tutto marcio, lui non è un politico di professione: le persone di cui si è circondato lo stanno fregando»· Le parole di Robert sono quelle che tutti ripetono nei mercati e nei ristoranti, nei bar e lungo le strade: «Crediamo in Weah ma deve svegliarsi e cacciare tutti quei corrotti, rifondare il sistema» dice arrabbiata Annette, proprietaria di un piccolo albergo.

E POI C’È IL MISTERO del container scomparso al Monrovia Free Port nel settembre 2018, che ha fatto esplodere la bomba sociale: 104 milioni di dollari in valuta locale (15,5 miliardi di dollari liberiani, il 20% del budget governativo annuale) spariti, evaporati nel nulla. Non si sa nemmeno se tutti insieme o in diverse fasi, tra il 2016 e il 2018. Quello che è certo è che due figli della ex-presidente, la premio Nobel Ellen Johnson Sirleaf, dirigenti della Banca Centrale, sono a processo per appropriazione indebita presso la Corte di Giustizia liberiana.

LA CORRUZIONE IN LIBERIA è un problema endemico: lo era durante l’epidemia di Ebola, quando alcuni ospedali rifiutavano i malati che non potevano oliare i meccanismi sanitari, e lo è ancora oggi. In un paese che vive di pubblico impiego e, poca, libera impresa informale «corruzione» significa non avere mai la garanzia di tornare a casa con abbastanza soldi per sfamare la famiglia, per comprare le medicine agli anziani o i libri di scuola e la cancelleria ai figli. Un problema che è esploso rabbiosamente con lo scandalo dei milioni spariti.
Nonostante tutto molti erano terrorizzati dalla manifestazione del 7 giugno. Nonostante le rassicurazioni degli organizzatori sulle modalità pacifiche e nonviolente della protesta lo spettro della guerra civile, il paese negli anni Novanta e nei primi Duemila ne ha vissute ben due, tra le più sanguinose e devastanti della storia africana, era un’ombra ingombrante sul volto di tutti. L’Unione africana, l’Ecowas ma anche i partner internazionali come gli Stati uniti si sono alternati per settimane nel chiedere ai liberiani di manifestare pacificamente, di limare i toni e di ridurre le tensioni.

MERCOLEDÌ 5 GIUGNO il nervosismo in città era altissimo, all’Università della Liberia un gruppo di studenti che protestava contro l’arresto di Carlos T. Edison, presidente dello Student Unification Party, è stato disperso dai lacrimogeni e la polizia ha istituito nel campus un’Unità di Soccorso d’emergenza in attesa della protesta di due giorni dopo.

NESSUNA VIOLENZA in divisa in stile Samuel Doe 1984, con fustigazioni di massa e stupri, solo arresti e lacrimogeni. La paura che qualcuno potesse andare oltre le righe durante la manifestazione o che qualche poliziotto sparasse era diffusa: «Se qualcuno spara sarà un bagno di sangue» diceva qualcuno all’Elite Bar, incalzato da altri che rispondevano «No, sarà una protesta pacifica, siamo stufi della violenza». Timori comprensibili, vista la storia di un paese dove la guerra civile sembra finita l’altroieri.

Il 7 giugno le misure di sicurezza erano estreme. Secondo la ong Netblocks, che monitora la governance di internet nel mondo, le app di Twitter, Facebook, Instragram, Snapchat e WhatsApp sono state bloccate per entrambe le principali reti mobili presenti in Liberia, salvo essere ripristinate a singhiozzo: «Motivi di sicurezza» ha spiegato il Ministro dell’Informazione alla Cnn.

 

 

foto Afp

 

Tutto questo non ha impedito a una folla enorme di radunarsi proprio davanti al palazzo del presidente. Un lunghissimo sit-in di protesta, 4-5 ore nell’umido caldo di Monrovia, conclusosi al tramonto senza la presentazione di alcuna proposta ufficiale da parte del Consiglio dei Patrioti, il comitato organizzatore, ma con diversi esponenti del governo che hanno cercato il dialogo e sollecitato la presentazione di un’istanza.

GLI ORGANIZZATORI hanno chiesto come condizione iniziale il rilascio degli arrestati al campus universitario, detenuti per oltre 48 ore senza ragioni apparenti, ma nonostante non si sia trovato un terreno comune su questo tema la grande notizia è che la protesta si è svolta e conclusa in modo pacifico. Nessuno è finito in ospedale e nemmeno in obitorio e questo non era certamente scontato: «Ha vinto la gente, ha vinto la Liberia» ha detto George Wisner, ex-direttore della Commissione per gli Investimenti che ha pubblicamente ringraziato gli organizzatori.

IL BICCHIERE va quindi necessariamente osservato mezzo pieno: una nuova generazione di liberiani e l’attuale apparato di pubblica sicurezza hanno dimostrato entrambi capacità di autocontrollo e nervi saldi e tutti hanno resistito alle intimidazioni, alle minacce e soprattutto alla paura.

La palla ora passa all’ex-attaccante, e attuale presidente, George Weah: è vero che non ha ricevuto proposte chiare dai manifestanti ma è anche vero che non può più permettersi di nascondere la testa sotto la sabbia.