La rotta balcanica è stata calpestata da milioni di passi fino al 2016. Da Turchia e Grecia si addentrava per arrivare in Europa occidentale, attraversando Bulgaria e Macedonia prima, Serbia e Ungheria poi. Sebbene la rotta sia stata ufficialmente chiusa da quando il criminale accordo tra Ue e Turchia è entrato in vigore nel marzo 2016, ci sono stati almeno 4.000 attraversamenti non documentati in Bosnia nei primi mesi del 2018. Spesso la provenienza è dai centri per richiedenti asilo e di accoglienza-migranti nelle regioni balcaniche meridionali, dove i rifugiati permangono ai limiti della sopravvivenza per mesi.

«LA POLIZIA di frontiera croata è l’ennesimo incubo» ci dice Faisal con visibili segni di percosse sul viso. Violenze, aggressioni e abusi sono i protagonisti dei racconti dei rifugiati. Il Ministero degli Interni croato nega tutte le accuse, insistendo sul fatto che la polizia ha sempre osservato la legge. «I rapporti della polizia croata sui cosiddetti pushback illegali non sono corretti», raccontano le dichiarazioni ufficiali.

LA POLITICA violenta di Orbán in Ungheria, la dura sorveglianza dei confini e la brutalità della polizia ungherese contro i migranti hanno spalancato le porte ad una nuova rotta attraverso i Balcani, che attraversa Albania, Montenegro e Bosnia. E così il commercio clandestino di essere umani, dal Sahel ha raggiunto anche la Bosnia. Qui i rifugiati pagano i contrabbandieri fino a 1200 dollari per il passaggio in Croazia o Slovenia. Altri tentano di attraversare il confine su camion o treni. La maggior parte ancora cerca di entrare in territorio croato a piedi.

DALLA GRECIA il passaggio in Albania è relativamente semplice sulla città di confine di Kakavia. A Tirana i taxi collettivi traghettano illecitamente i rifugiati fino al confine nord con il Montenegro. Nonostante il governo Rama conosca esattamente l’entità dei movimenti del passaggio non legale dei rifugiati, lo permette senza osservazioni. «In fondo in Albania rimangono solo per qualche giorno», sono le affermazioni dei funzionari, secondo i racconti raccolti tra i rifugiati.

UNA VOLTA giunti a Bozaj, sul confine montenegrino, la via continua seguendo a piedi la rete ferroviaria fino a Podgorica, la capitale montenegrina. È da qui che inizia il tragitto verso la Bosnia-Erzegovina, dove la sopravvivenza è legata spesso a campi non ufficiali e edifici abbandonati. Le strade partono dalle città meridionali di Trebinjie, Višegrad, Foca e Goražde, che attraversano l’intero Paese per arrivare nelle città nord-occidentali di confine di Bihac e Velika Kladuša. L’uso della violenza deliberata e calcolata da parte della polizia croata sul confine bosniaco-croato è l’ostacolo successivo, come accadeva con la brutalità della polizia ungherese sui confini della vecchia rotta balcanica. La Bosnia è sempre stata un rifugio per chi era in fuga. Nel 1400 accoglieva i profughi ebrei perseguitati in Spagna e Portogallo, e non nei ghetti, come fece la maggior parte dei Paesi europei, ma con l’integrazione a Sarajevo. E già dal Medioevo, il Paese accoglieva i catari del sud della Francia e i gli eretici bogomili.

NEI CAMPI profughi il tempo è fermo al giorno in cui ognuno dei rifugiati ha lasciato la propria casa. Per i bambini: lezioni a scuola congelate. Nessun lavoro per gli uomini. Nessuna quotidianità per le donne. Si dipende interamente dalla bontà o dall’indifferenza del vicino. Un crudele esperimento sociale. Nel centro di accoglienza di Bihac, per ora sono presenti almeno 400 rifugiati, per lo più provenienti da Afghanistan, Pakistan, Siria e Iraq, qualcuno dal Sahel dopo aver attraversato la rotta di Agadez. Di questi, la metà sono bambini tra i due mesi e i 16 anni. Alcuni con le mamme, altri sono soli, altri ancora sono accompagnati da amici di famiglia.

 

La piccola tendopoli dei profughi di Vladika Kladusa (foto Federica Iezzi)

 

LA SITUAZIONE è totalmente diversa nel campo di Borici, tra Bihac e Cazin, dove le presenze cambiano freneticamente ogni giorno. Il ritmo incessante di nuovi arrivi e nuove partenze non permettono un censimento esatto. Ed è la stessa situazione che troviamo nel campo di Velika Kladuša, unico punto di raccolta gestito dalla municipalità della città, dopo la decisione dello stesso sindaco, Fikret Abdic, «originale» figura della crisi bosniaca. Già discusso manager del colosso agroalimentare jugoslavo Agrokomerc, a inizio guerra anni Novanta era il leader musulmano più popolare di Alja Izetbegovic; la rottura tra i due provocò quella con i musulmani di Sarajevo quando Abdic proclamò la Regione autonoma del Bihac; ne nacque una guerra feroce tra musulmani; fu condannato a 20 anni per crimini di guerra in Croazia.

SEGUIAMO con gli occhi la ferrovia che attraversa la terra bosniaca e che si perde ai piedi dei boschi e tra i villaggi. Piccoli gruppi di rifugiati si fanno strada nella fitta nebbia delle montagne. Instancabili camminano verso nord, su strade secondarie, seguendo i binari dei treni o sfidando i boschi, dove non di rado pernottano. Basta guardare quanto fitti siano questi boschi di conifere, faggi e castagni, per capire come mai la scelta dei rifugiati sia caduta su questa via, in cui scemano le percentuali di essere arrestati e rimandati a morire nei propri Paesi. «La guerra ci osserva da ogni direzione. Non sai mai se ti stanno seguendo con un mirino o se sarai tu la prossima vittima», ci dice Saad. Le storie sono comuni e si ripetono in duri corsi e ricorsi storici. Il desiderio di ogni rifugiato è tornare nel proprio Paese di origine, anche se attanagliato e tormentato da migliaia di problemi. La guerra, la fame, la disperazione più profonda impedisce il rientro di questa gente nelle proprie case, nelle proprie vite. «Vedere morti e feriti abbandonati nelle nostre strade è normale», continua Saad. Questa è la grande distorsione dell’anima di quanto vivono. E allora chi è il vero responsabile dei flussi migratori?

 

foto Federica Iezzi

 

«NON SO QUANTi chilometri a piedi ho fatto da Herat. Hai un paio di scarpe che ti devono bastare per tutto. Se è caldo o freddo non ha importanza. Alla fine di ogni giornata di cammino avevo le caviglie gonfie e ferite sulla pelle che non si rimarginavano mai. Si impara a sopportare quel dolore, così come quello delle ferite da freddo sulle mani. Respiri l’aria di chi cammina davanti a te. Il freddo ti entra nelle ossa. Ti scorre nel sangue. Di notte a volte non sai se sei ancora vivo o se sei morto. Se muoio, solo e abbandonato, a 4000 chilometri da casa chi lo dirà alla mia mamma? Quanto tempo ci vorrà per dimenticare tutto questo?». Ascoltiamo, indifesi contro l’indifferenza del mondo, in rispettoso silenzio, le parole e le lacrime di Tawfiq. Non c’è da aggiungere altro. Vengono etichettati come profughi, pensando che avere un permesso di soggiorno rappresenti il fine ultimo, quello che spalancherà loro la porta della felicità. Ma non è così perché quando la gente è costretta a lasciare il proprio Paese, quel Paese smette di vivere. Le poche cose che riescono a crescervi, marciscono in fretta.

IN QUELL’INFINITO viaggio porti con te solo un nome e cognome che ti martella la testa, nessun documento, nessun segno del passato. Sai solo come ti chiami e questo è l’unico patrimonio che puoi consegnare. Alla domanda come si continua a vivere in fuga dalla guerra, Taiba ci risponde: «Devi almeno pensare a quello che farai oggi e domani». Ha lasciato l’Iraq quattro mesi fa e spesso durante il viaggio l’unico tetto sopra la sua testa è stato un sottile telo di plastica sostenuto da bastoni. Ha smesso di fare piani per il futuro, ha smesso di sperare che tornerà a lavorare a scuola, ha smesso di credere che tutta la sua famiglia un giorno si riunirà. Ci dice, con una malinconica rassegnazione: «A Mosul non sarà possibile vivere per altri 20 anni».

NELL’ULTIMA campagna elettorale bosniaca, le voci nazionaliste sono state preponderanti. Qui il dopoguerra, in qualche modo, non ancora concluso. In Bosnia Erzegovina tutti hanno vissuto la condizione di profughi e ora la nuova rotta balcanica occidentale, riapre lacerazioni non ancora cicatrizzate.