Durerà sei mesi più eventuali quattro – ha fatto sapere ieri il ministro della Difesa Siraj Fegessa – lo stato d’emergenza decretato venerdì scorso in Etiopia, all’indomani delle dimissioni del premier Hailemariam Desalegn e al culmine dell’ennesima ondata di proteste antigovernative represse nel sangue, negli stati di Oromia e Amhara.

Se qualcuno si faceva illusioni sulla possibilità di maggiori aperture democratiche da parte del regime, dopo l’amnistia che negli ultimi giorni avrebbe rimesso in libertà migliaia di prigionieri politici e dopo l’annuncio a sorpresa di Desalegn, si è dovuto ricredere.

La misura prevede il divieto assoluto di manifestare e pene severe per chiunque pubblichi o diffonda materiale che «semina discordia», ha detto il ministro. La censura, per capirsi, non farà sconti. E le carceri torneranno a riempirsi di oppositori. Fegessa allo stesso tempo ha smentito pericoli di un colpo di stato imminente, aggiungendo che Desalegn resta in carica per le funzioni ordinarie.

Analogo provvedimento era stato preso nell’ottobre del 2016 ed era rimasto in vigore appunto dieci mesi. Dopo centinaia di morti, due regioni importanti in stato semi-insurrezionale e migliaia di arresti che hanno falcidiato le file dell’opposizione, la coalizione al potere dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (Eprdf), in cui primo partito è espressione della minoranza tigrina, cerca di reprimere il reprimibile con un altro giro di vite. In una cupa deriva autoritaria che stavolta sembra preoccupare anche Washington.

Il decreto ora passa al parlamento per la ratifica. Ma il prossimo passaggio importante sarà la scelta del nuovo primo ministro. L’opzione più “distensiva” potrebbe ricadere sull’attuale ministro degli Esteri, Workneh Gebeyehu, appoggiato dall’Organizzazione democratica del popolo oromo, la forza che più ha spinto per le dimissioni di Desalegn.