In uno dei più prestigiosi alberghi di Addis Abeba dei cali di corrente lasciano l’intero locale al buio per alcuni secondi. Sono rari, ma è abbastanza insolito per uno dei pochi alloggi che riesce a offrire ai turisti una copertura di internet, luce e acqua calda e fredda.

Nel resto della città usufruire di tutti i servizi è impensabile. L’elettricità è distribuita per fasce orarie, l’acqua calda è una rarità. Gli etiopi sono abituati alla mancanza di servizi, che è il risultato di 45 anni di governi autoritari e non è certamente effetto degli ultimi saliscendi del governo di Abiy Ahmed. Non si scompongono più se manca l’acqua in casa per due settimane, ma possono infastidirsi per il mancato ripristino di internet e il blocco dei social media, effetto delle misure prese dal governo dopo il tentativo di golpe nel paese avvenuto circa tre settimane fa.

«IL GOVERNO HA OSCURATO Facebook perché la gente viene istigata alla violenza etnica attraverso i social media» spiega Samrawit Getaneh, avvocata per i diritti umani per l’Unione africana. «I gruppi etnici si accusano l’un l’altro attraverso i post su Facebook e ci sono alcuni estremisti che cercano di convincere la popolazione ad armarsi e combattere contro il nuovo governo».

 

Addis Abeba, lettori di giornali in piazza Arat Kilo (foto laura Ghiandoni)

 

Siamo a tre settimane dal tentativo di colpo di stato avvenuto il 22 giugno in cui sono stati uccisi in un attentato alcuni generali dell’esercito vicini al primo ministro Abiy Ahmed, oltre che il governatore dello stato di Amhara. Il cospiratore, Asamnew Tsige, ucciso poche ore dopo l’attentato dall’esercito etiope vicino a Bahir Dar, era un oppositore liberato proprio in conseguenza alle politiche di apertura e dialogo nei confronti degli oppositori politici. Nei giorni seguenti all’attentato sono state arrestate circa 250 persone per presunto coinvolgimento nel tentato golpe tra cui politici, attivisti e giornalisti, i cui nomi non sono stati divulgati e molti dei quali sono ancora in carcere in attesa di giudizio.

«Il governo ha promesso un processo equo a tutti i carcerati – spiega la giurista -. Alcuni verranno trovati colpevoli, altri forse verranno rilasciati, ma verranno giudicati in modo giusto e questa è una pratica a cui i cittadini non sono abituati. Alcuni accusano Abiy Ahmed di reagire debolmente». E poi riferendosi all’operato del primo ministro: «Sta cambiando le leggi, ma non ha sostituito tutte le persone che le applicano nel paese ai livelli più bassi. Molti di coloro che traevano vantaggio dal precedente governo, sono ancora al loro posto».

ABIY AHMED, IL PRIMO MINISTRO salito al potere nell’aprile scorso è divenuto subito una figura chiave nell’ambito del ripristino del rispetto dei diritti umani nel paese, diritti dimenticati dai precedenti dirigenti politici. Salito al governo ha rilasciato tutti gli oppositori incarcerati, tra cui giornalisti e attivisti. «Migliaia di giornalisti sono stati liberati e questo è uno dei migliori momenti nella recente storia dell’Etiopia» spiega Samrawit. Nel settembre dell’anno scorso il premier ha concesso la libertà di stampa ai media e permesso il ritorno di oppositori politici. Con questo tipo di politica Ahmed ha conquistato il favore delle fasce più liberali della popolazione, facendo riguadagnare al paese in breve 40 posizioni nel World Press Freedom Index, il cui evento principale è stato ospitato ad Addis Abeba lo scorso maggio.

SEMBRANO TRASCORSI ANNI da quel maggio. «Il governo dopo il tentato golpe ha bloccato i social media per controllare cosa avviene all’interno del paese» spiega Methews Kuruvilla, professore di Politiche africane e Relazioni internazionali del Dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Addis Abeba. Che prosegue: «Il mancato ripristino dei social media sta influenzando in modo negativo l’economia del paese, ormai la gente lavora attraverso internet e utilizza regolarmente le transazioni bancarie online per effettuare pagamenti, transazioni che non essendo disponibili non permettono la circolazione del denaro. C’è una nuova crisi economica, tutti si chiedono cosa succederà e si dovrà vedere se il governo riuscirà a sostenerla».

Anche nella periferia dell’immenso territorio etiope, nella città di Jinka della Valle dell’Omo, la crisi economica si fa sentire. La difficile reperibilità del dollaro rende svantaggioso l’acquisto di beni di prima necessità provenienti dall’estero, come ad esempio la benzina.
La piazza di un distributore sulla via principale della città è ingombra di motociclette e tuk tuk. I guidatori attendono annoiati il proprio turno davanti alla pompa che elargisce con parsimonia la poca benzina disponibile. Alla noia dei motociclisti in attesa sfibrante, si alternano gare frenetiche a chi riesce per primo a conquistarsi una tanica piena e tornare a lavorare.

«LA CRISI È ECONOMICA, sociale e politica e il governo cerca di gestire gli oppositori con dei compromessi, ma al suo interno ci sono delle divisioni». Kuruvilla si riferisce ai conflitti che derivano dalla divisione del territorio in una federazione di regioni divise per etnie, divisione formalizzata nel 1995 da Meles Zenawi. «Ci sono 80 etnie diverse in questo paese, ma le regioni sono solo nove e molti sono obbligati a fuggire dalle loro case» spiega accennando al fatto che l’Etiopia nella prima metà del 2018 ha vinto il triste primato mondiale come paese con più sfollati interni.

Mentre la questione etnica dilaga, si teme stia avvenendo una nuova stretta sulla libertà di stampa. Negli scorsi giorni Amnesty International ha diffuso il nome di due giornalisti nuovamente dietro le sbarre: Berihun Adane e Elias Gebru. L’accusa è quella di «terrorismo», come accadeva nei 45 anni che hanno preceduto l’arrivo delle riforme di Abiy Ahmed. «Tutti i giornalisti arrestati devono essere rilasciati e le accuse contro di loro devono assolutamente cadere al più presto» ha dichiarato l’organizzazione umanitaria al ministero della Difesa che l’8 luglio ha svelato un piano per colpire tutti quei giornalisti ed editori che hanno mosso critiche alle Forze armate dopo il tentativo di golpe.

MA MENTRE IL CONFLITTO etnico ancora impazza a tutti i livelli della società, mentre molti attivisti e giornalisti ancora attendono in carcere il processo, è dubbia la via che il governo prenderà per tenere sotto controllo la situazione: «Sono tutti molto preoccupati», commenta Kuruvilla.

 

Di fronte all’università di Addis Abeba (foto laura Ghiandoni)

 

84 etnie e 1,4 milioni di «sfollati interni»

La popolazione etiope conta circa cento milioni di abitanti ed è divisa in 84 gruppi etnici, che si differenziano per usi, costumi e linguaggio. Tra le etnie principali ci sono gli Oromo e gli Amhara che raccolgono più del 62% della popolazione, mentre i Tigrini, che contano circa il 6% della popolazione, hanno rappresentato l’etnia dominante alla guida del paese fino all’aprile del 2018.

Il sistema di divisione del territorio su basi etniche, è avvenuto dopo la disfatta del regime di Haile Menghistu. Nel 1991 fu formato un governo provvisorio guidato da Meles Zenawi, e nel 1995 venne formalizzata la nuova costituzione della Repubblica federale democratica etiope che ha diviso lo stato in nove regioni etniche.

In seguito alle politiche autoritarie attuate dal precedente governo conflitti causati da sentimenti di vendetta sono dilagati sul territorio. Secondo il Centro di monitoraggio sui Rifugiati interni di Ginevra circa 1,4 milioni di persone sono state obbligate a lasciare la propria casa nella prima metà del 2018 facendo vincere all’Etiopia nello stesso anno il triste primato mondiale di «paese con il maggior numero di sfollati interni».

 

Un mercato di Addis Abeba (foto Laura Ghiandoni)

 

Tsige, dal carcere al tentativo di putsch

Il 22 giugno sono stati uccisi in una sparatoria a Bahir Dar, nel nord dell’Etiopia, il governatore della regione Amhara, Ambachew Mekonnen e il suo consulente Ezez Wassie. Nella stessa notte sono stati assassinati a Addis Abeba il capo dell’esercito nazionale Seare Mekonnen e il generale Gezai Abera. Il portavoce del premier, Nigussu Tilahun, ha dichiarato successivamente che i due attacchi rivolti contro personalità di primo piano fedeli al primo ministro Abiy Ahmed erano collegati.

L’organizzatore del tentativo di golpe, Asamnew Tsige, al momento dell’attentato in carica come capo della sicurezza dell’Amhara, è stato ucciso dall’esercito etiope poche ore dopo.

La liberazione del putchista, nel 2018, era stata frutto delle politiche di apertura nei confronti degli oppositori per una possibile democratizzazione del paese. Dopo il tentato golpe 250 persone sono state fermate. Tra gli arrestati anche giornalisti e attivisti.

 

Abiy Ahmed (foto Afp)