Se il presidente colombiano Iván Duque pensava di placare la rabbia della popolazione ritirando la sua contestatissima riforma tributaria non poteva sbagliarsi di più. Ad alimentare la protesta, all’ottavo giorno consecutivo, ci hanno pensato le forze dell’ordine scatenando una repressione brutale.

«Stiamo facendo tutto bene», ha assicurato il generale dell’esercito colombiano Eduardo Enrique Zapateiro a un gruppo di agenti della polizia nazionale, «la più addestrata e preparata al mondo»: «Stiamo offrendo la nostra vita, la nostra umanità, per salvare la democrazia che alcuni vogliono distruggere».

Ed ecco il «tutto bene» di Zapateiro in cifre: almeno 19 morti (ma le organizzazioni di diritti umani parlano di 31 vittime), 814 arresti arbitrari, 1.443 casi di abuso da parte della polizia, 10 di violenza sessuale, 21 di lesioni oculari e 77 di uso di arma da fuoco contro i manifestanti. Sarebbero 87 le persone scomparse, secondo il rapporto della Defensoría del Pueblo de Colombia.

Tra le vittime, molti giovanissimi, come l’artista 22enne Nicolás Guerrero, ucciso la notte del 2 maggio dalla polizia con un colpo di arma da fuoco alla testa mentre filmava gli scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti, o come lo studente universitario, anche lui di 22 anni, Kevin Antoni Agudelo, raggiunto da un colpo di fucile mentre partecipava a una pacifica veglia per i caduti.

È anche in loro nome che il Comité nacional del paro (in cui confluiscono diverse organizzazioni popolari), il settore universitario e la Minga indigena hanno confermato che la mobilitazione andrà avanti finché non verranno ascoltate le loro richieste: la smilitarizzazione delle città, lo smantellamento dell’Esmad (lo Squadrone mobile antisommossa della polizia), il ritiro del progetto di riforma della Salute, il rafforzamento della campagna di vaccinazione, la creazione di un reddito di cittadinanza, misure di protezione per i leader sociali e gli ex combattenti.

«Creeremo uno spazio per ascoltare la cittadinanza e costruire soluzioni», ha garantito Duque, annunciando colloqui con le istituzioni, i sindaci, i governatori, il Comité del paro (incontro previsto il 10 maggio), gli studenti (il 12), i partiti, i sindacati. Difficile, tuttavia, che la sua sordità sia migliorata rispetto alla grande mobilitazione del novembre 2019, quando aveva risposto, anche in quel caso, invitando al dialogo, ma nei fatti portando avanti un monologo.

Neppure una parola il presidente ha speso per le vittime, né ha fatto cenno agli abusi della polizia, spesso ripresi dal vivo e trasmessi in diretta dalle reti sociali, infischiandone anche della preoccupazione espressa dalle Nazioni unite, la Ue e il governo Biden per l’«uso eccessivo della forza» contro i manifestanti e le minacce e le aggressioni nei confronti dei difensori dei diritti umani. «Sono cosciente – si è limitato a dire – che in questa situazione vi saranno sempre voci mirate a capitalizzare politicamente le difficoltà».

Non sorprende che la rabbia esploda dando anche luogo, malgrado il carattere essenzialmente pacifico della mobilitazione, ad atti di vandalismo e di violenza tra gli stessi manifestanti. Tanto più che, come evidenzia il portale La silla vacía, «la manifestazione negli ultimi giorni ha assunto vita propria», anche al di fuori del calendario fissato dal Comité del paro, nutrendosi di una dinamica in cui «un video di un abuso della polizia genera una marcia e questa marcia genera più abusi».

Se ne è accorto anche il leader dell’opposizione Gustavo Petro, che non ha nascosto la sua preoccupazione: «Siamo vicini al punto di non ritorno. La società può esigere la rinuncia di Duque e le elezioni anticipate. E Duque, o chi lo sostituirà, può puntare le armi contro il popolo. Si può ancora evitarlo. Chiedo al Comité del paro di riorganizzare la mobilitazione e tornare a fissare date precise».