Si svolgerà oggi, tra molte incognite e altrettante speranze, la prima sessione della Convenzione costituente chiamata a redigere una nuova Carta costituzionale in sostituzione di quella di Pinochet.

A precederla saranno attività e celebrazioni varie, come quelle promosse dalla Coordinadora Feminista 8M o dai popoli originari. O quella convocata dalla Lista del Pueblo (quella degli indipendenti di sinistra) in Plaza Dignidad, in omaggio a tutte le vittime della repressione e ai prigionieri politici, di cui non a caso si esige, come prima misura della Convenzione, l’amnistia immediata.

Sarà una festa, assicurano i costituenti, ma una festa su cui incombono diverse ombre. Il dubbio, avanzato da alcuni settori, che la Convenzione costituente non sia lo strumento adeguato per rispondere alle rivendicazioni espresse durante la ribellione popolare è giustificato anche dal rapporto di forze all’interno dell’organismo.

Se dei 155 costituenti 48 sono indipendenti (di cui 11 vicini però al centro socialdemocratico), 37 appartenenti alla destra o all’estrema destra, 28 al blocco composto dal Partito comunista e dal Frente Amplio, 25 alla ex Concertación e 17 ai popoli indigeni, non è da escludere che un’alleanza, almeno su alcuni punti, tra le forze tradizionali di destra e di centrosinistra e gli indipendenti moderati finisca per condurre a un cambiamento in perfetto stile gattopardesco.

Che l’essenza capitalista dell’attuale Costituzione rischi di restare intatta lo prevede lo stesso «Accordo per la pace» del 15 novembre 2019 con cui le forze politiche tradizionali (con l’astensione del Partito comunista) avevano tentato di canalizzare la protesta sacrificando, sì, la Carta di Pinochet, ma fissando paletti ben precisi, come il contestatissimo quorum dei due terzi o l’altrettanto problematico divieto di modificare i trattati internazionali. Ossia proprio quelli che hanno assicurato buona parte del saccheggio portato avanti negli ultimi 30 anni.

E lo ha ribadito lo stesso presidente Piñera firmando il decreto di convocazione della sessione inaugurale: ha escluso categoricamente che si possano riconoscere alla Convenzione «l’esercizio della sovranità o altri attributi che non le siano stati esplicitamente conferiti».

È infatti proprio sul rispetto delle regole imposte dall’accordo che si acceso il dibattito nelle ultime settimane, soprattutto dopo la lettera con cui l’8 giugno i 34 costituenti della neonata “Vocería del Pueblo” – un’istanza costituita da indipendenti e rappresentanti indigeni decisi a promuovere un processo costituente participativo, inclusivo, plurinazionale, decentrato, rispettoso della natura e senza tutele – hanno rivendicato il carattere sovrano della Convenzione, invitando a superare i paletti imposti in precedenza da uno screditatissimo Congresso.

Un’iniziativa, a cui si sono poi aggiunti altri sette costituenti, che ha suscitato reazioni isteriche all’interno del mondo politico, a dimostrazione di quanto sia alta la posta in gioco: la lettera, hanno tuonato le forze tradizionali, a cominciare da quelle di destra, è «incostituzionale», «illegale», addirittura «antidemocratica» e «totalitaria» e «tradisce la volontà» del popolo espressa nel plebiscito.

«È come dire agli elettori che sono stati ingannati, che queste regole non ci sono più», ha dichiarato il portavoce del governo Jaime Bellolio, sorvolando sul fatto che il popolo, almeno in grande maggioranza, aveva partecipato al plebiscito per la nuova costituzione non per adesione a regole imposte dall’alto, ma malgrado queste.

Nonostante tutto, è con forti aspettative che si aprono oggi, ufficialmente, i lavori della Convenzione che, dopo l’elezione della presidenza dell’organismo, avrà un anno di tempo per redigere una nuova Carta, il cui testo dovrà poi essere ratificato dalla popolazione attraverso un referendum.