Burrasca in due governi regionali spagnoli. In Catalogna la crisi di governo si è chiusa con l’allontanamento dei ministri dubbiosi sul referendum di autodeterminazione che il Govern di Barcellona vuole celebrare il primo di ottobre. Molto più a sudovest, in Castiglia La Mancia, la crisi del governo regionale si chiude in modo totalmente diverso: il presidente socialista della comunità autonomista ha per la prima volta aperto la porta a un bicolore rosso-viola in un governo regionale. Podemos non è mai entrato prima in un governo guidato da un socialista.

Ma andiamo per ordine.

A Barcellona, il governo naviga già da varie settimane in acque tempestose. L’impegno a celebrare in autunno un referendum «vero» per decidere se separarsi dal resto della Spagna tiene assieme la fragile alleanza parlamentare che sostiene il President Carles Puigdemont.

Sarebbe ormai la quarta volta che i catalani sono chiamati a votare sull’indipendenza: già lo hanno fatto nel «referendum» del 2014 e nelle ultime due elezioni regionali, quando gli indipendentisti chiedevano la maggioranza dei seggi. Nel 2014, il governo di Rajoy aveva annullato tutti i ripetuti tentativi del parlamento e del governo di Barcellona di consultare i catalani sul proprio futuro.Alla fine, si era tenuta una «consulta» in cui avevano votato 2 milioni e mezzo di persone (sui 5 milioni e mezzo di votanti, ma allora potevano votare anche i sedicenni e gli stranieri residenti).

Rajoy è intenzionato a usare ogni mezzo giuridico per bloccare il temuto referendum, che dicono di volere più dei tre quarti dei catalani. Le posizioni si sono andate irrigidendo. Il Pp non ha mai preso alcuna iniziativa per disinnescare il conflitto; a Barcellona il governo è impegnato a convincere i catalani che Madrid non importa, che il referendum si celebrerà e sarà vincolante. Ma non ci sono atti pubblici, per paura che vengano impugnati.

Le urne non sono state comprate, perché nessun funzionario e nessuna impresa hanno voluto rischiare la denuncia. Il censo elettorale in teoria è in mano del governo di Madrid. Dopo aver fatto fuori un ministro che aveva espresso incertezza sulla celebrazione del plebiscito la settimana scorsa, ieri Puigdemont ha allontanato altri tre ministri, che pare temessero di firmare collegialmente gli atti governativi sul referendum per paura di perdere il proprio patrimonio.

Ma la tensione rimane alle stelle: gli indipendentisti non sono riusciti a convincere nessun partito dell’opposizione catalana (che comunque rappresentano allo stato la maggioranza dei voti) sulla bontà del loro referendum.

Neppure i Comuni, il partito guidato da Ada Colau, che pure sono favorevoli a celebrarne uno. Il partito della sindaca di Barcellona esige «garanzie democratiche». Anche la legge che dovrebbe guidare la transizione verso la repubblica catalana viene discussa in segreto e verrà approvata in un blitz agostano (grazie a una modifica del regolamento). Non viene neppure presa in considerazione l’opzione di perdere la consulta, anche se i sondaggi continuano a parlare di uno zoccolo duro di non più del 30-35% di indipendentisti duri e puri.

A Toledo, invece, capitale manchega, il presidente socialista Emiliano García Page ha risolto la crisi a cui l’aveva costretto Podemos per aver votato contro il budget in modo del tutto inaspettato. García Page, fan sfegatato di Susana Díaz contro Pedro Sánchez, uno che minacciava di uscire dal partito per protestare contro la «podemizzazione» a cui l’avrebbe spinto il nuovo segretario, alla fine ha aperto le porte del suo governo ai viola, che otterrebbero una vicepresidenza.

Pablo Iglesias ha celebrato pubblicamente questo passo che evidenzia come mai prima che i rapporti fra socialisti e Podemos stanno davvero cambiando.