Sono almeno otto i blocchi stradali attivi da giorni in Bolivia contro il governo dell’autoproclamata Jeanine Añez: a El Alto, a Cochabamba, alla frontiera tra Potosí e Oruro, a Santa Cruz. Le tensioni più gravi si registrano a K’ara K’ara, a Cochabamba, dove i manifestanti impediscono da più di una settimana il passaggio verso la discarica, con il conseguente accumulo di oltre 4mila tonnellate di rifiuti per le strade della città.

E dopo l’ultimatum di 24 ore per la rimozione del blocco stradale lanciato dalla Resistencia Juvenil Cochala, un gruppo para-fascista che ha acquisito notorietà durante il golpe di ottobre, il rischio di violenze diventa di ora in ora sempre più reale.

OVUNQUE LA PROTESTA si pone due obiettivi principali: rendere più flessibili le misure di una quarantena che, in assenza di una qualsiasi strategia di supporto, sta strangolando la popolazione più povera e fissare una nuova data per le elezioni generali che avrebbero dovuto svolgersi il 3 maggio. Ma i manifestanti chiedono anche misure di sostegno alle fasce più basse, trasparenza nella destinazione degli aiuti internazionali, lo stop alla repressione da parte della polizia, che l’11 maggio ha attaccato violentemente i manifestanti che protestavano a Cochabamba per la mancanza di assistenza alimentare. Una protesta che ha seguito di appena 24 ore il petardazo – l’accensione simultanea di migliaia di fuochi di artificio e di petardi in tutto il paese – realizzato contro il governo de facto, la sua inadeguatezza di fronte all’emergenza sanitaria (i circa 4.500 casi di contagio dicono assai poco a fronte di appena 12mila tamponi realizzati), la criminalizzazione della povertà.

DI CERTO, SE IL GOVERNO AÑEZ non è l’unico, in America latina, ad aver tratto vantaggio dal Covid-19, è forse quello che ha più motivi per ringraziarlo. Non solo perché gli ha concesso di posticipare le elezioni, ma anche perché gli sta offrendo su un piatto d’argento la possibilità di soffocare in maniera definitiva qualsiasi voce di dissenso. Non a caso, il 7 maggio, il governo ha emanato un provvedimento che punisce chiunque divulghi «informazioni che mettano a rischio la salute pubblica o che generino incertezza nella popolazione». Vale a dire qualunque critica a una gestione dell’emergenza limitata esclusivamente a misure coercitive e alla repressione militare.

 

L’esercito nelle strade di La Paz (Ap)

 

«C’è chi approfitta della pandemia per fare opera di disinformazione sulle reti sociali. Abbiamo ordinato alla polizia, alle forze armate e alle autorità competenti di operare una cybersorveglianza», aveva già annunciato precedentemente il ministro dell’Interno Arturo Murillo. Con il risultato che, dopo la persecuzione ai giornalisti e la chiusura di oltre cinquanta radio comunitarie nella prima fase post-golpe, oggi non c’è rimasto quasi più nessuno ad azzardarsi a criticare il governo: persino il celebre vignettista Alejandro Salazar ha deciso di mettere fine alle sue caricature sul quotidiano La Razón. Cosicché non stupisce che il 30 aprile scorso il Washinton Post abbia inserito la Bolivia tra i cinque paesi che più stanno utilizzando la pandemia per portare avanti persecuzioni politiche (in compagnia delle Filippine, della Cambogia, dell’india e dello Sri Lanka).

IN QUESTO CLIMA, mentre il Mas, il Movimiento al Socialismo, porta avanti la sua lotta al Congresso per andare al voto entro il 2 agosto, il disincanto politico sembra dilagare: secondo un sondaggio di aprile solo l’1,7% della popolazione esprime preoccupazione per la sospensione del processo elettorale.