L’attore principale della campagna elettorale verso le presidenziali di fine ottobre è la crisi economica. L’Argentina rivive lo spauracchio del default ma a differenza del 2001 le economie popolari oggi sono una realtà pronta ad affrontarne gli effetti. Tra queste c’è la Central de Trabajadores de la Economía Popular (Ctep), che attraverso cooperative, mense popolari, scuole autogestite e fabbriche recuperate offre alternativa a migliaia di famiglie in tutto il paese. Juan Grabois è portavoce del movimento.

Come nasce la vostra esperienza?
Inizia con l’irruzione feroce del neoliberismo negli anni ’90, quando il lavoro salariato sparisce come prospettiva reale per i lavoratori. L’idea che i figli potessero avere un lavoro migliori dei genitori, con diritti sociali e un certo livello di stabilità, è tramontata già dalla fine degli anni ’70. Ma è col processo di concentrazione dei capitali degli anni ’90 che si comincia ad affermare un settore strutturalmente escluso dal mercato del lavoro. Questi settori hanno trovato espressione attraverso il movimento dei disoccupati, a cui in Argentina si aggiungono i contadini e indigeni, il movimento di fabbriche recuperate, e quello dei cartoneros – raccoglitori informali e riciclatori di residui urbani. Cioè uomini e donne scartati dalla globalizzazione che dalle periferie inventano lavori coi mezzi di produzione che hanno a disposizione: un pezzettino di terra da coltivare, un carro per il cartone, piccole cooperative popolari, e che dalla precarietà delle loro esperienze rivendicano politiche di ridistribuzione della ricchezza per strappare la dignità per il lavoro autogestito.

La Ctep è il loro sindacato?
In Argentina, dove esiste ampia cultura di organizzazione operaia, questo settore rappresenta più del 35% dei lavoratori. Grazie alla lotta oggi esistono norme che riconoscono alcuni diritti di questi lavoratori come il reddito sociale integrativo, che rappresenta il 50% del salario minimo – che ricevono 500 mila lavoratori dei 5 milioni aventi diritto – l’accesso alla previdenza sociale e al riconoscimento dei contributi. In alcuni casi i lavoratori dell’economia popolare sono riusciti a ottenere il controllo di alcuni settori. E poi c’è l’esperienza delle oltre 300 fabbriche recuperate per tutto il paese.

Che impatto ha avuto la crisi sull’economia popolare?
La situazione oggi è catastrofica. Un lavoratore regolare, se riceve il salario minimo, si trova sotto la linea della povertà estrema. C’è però una differenza abissale per i lavoratori dell’economia popolare, perché questa rete, che di solito non appare nelle statistiche, permettere di risolvere le problematiche di approvigionamento del cibo o della cura dei figli. Aspetti che l’economia borghese non misura. Noi abbiamo circa 20.000 mense in tutto il paese, e vediamo che non ci vengono solo le famiglie dei nostri compagni ma ci viene tutto il quartiere.

Il 27 ottobre si sceglie il nuovo presidente. Voi siete schierati con l’opposizione. Che valutazione fate dello scenario elettorale?
Noi crediamo che il ciclo di Macri sia concluso. Ciò che bisogna vedere è fino a dove arriva la crisi, se abbiamo già toccato il fondo o si finirà ancora più in basso. La nostra prospettiva si limita a oggi, non abbiamo molta possibilità di analisi del futuro nella fase attuale. Noi abbiamo rivolto al Frente de Todos, a Alberto Fernandez e Cristina Kirchner la richiesta di dare priorità all’emergenza alimentare che vive il nostro popolo, le parole d’ordine sono le stesse dall’incontro tra i movimenti popolari e Papa Francesco in Bolivia nel 2015: terra, tetto e lavoro.