La diseguaglianza sociale (67%) è la principale causa delle crisi che colpiscono l’America latina. Seguono corruzione (63%) e mancanza di fiducia nel sistema democratico (22%). È quanto si evince da una recente inchiesta alla quale hanno partecipato 360 fra analisti e giornalisti di 14 paesi.

L’America latina ha vissuto una convulsa fine dell’anno passato con manifestazioni popolari e scontri in Cile, Ecuador e Colombia e con il colpo di stato in Bolivia, senza dimenticare le tensioni in Brasile e Perù e le conseguenza della guerra economico-finanziaria e commerciale degli Stati uniti contro il Venezuela e Cuba.

LE STESSE CAUSE che hanno prodotto manifestazioni e ribellioni popolari permangono nei primi mesi di quest’anno, come non si stancano di ripetere le organizzazioni che si battono per una nuova Costituzione in Cile, in difesa dei leader sociali e nativi in Colombia e Ecuador e contro il governo golpista in Bolivia. E derivano dal manifesto fallimento del sistema neoliberista imposto nel subcontinente soprattutto dagli Stati uniti e dalle conseguenti strategie di sviluppo basate sull’estrattivismo – l’esportazione di materie prime nei settori agricolo, minerario e energetico (colpa quest’ultima da cui non sono stati esenti anche governi progressisti).

L’ultimo allarme è stato lanciato dalla segretaria del Cepal, (Commissione economica per l’America latina e il Caribe) Alicia Bárcena: nel suo recente report ha dichiarato che l’estrattivismo «concentra la ricchezza in poche mani e non stimola l’innovazione tecnologica». In questo quadro le previsioni per il 2020 confermano la tendenza a una contrazione del tasso di crescita – il cui picco è stato l’anno appena concluso a causa della diminuzione della domanda e dei prezzi delle commodities latinoamericane – e con l’aspettativa di un 1,3% di crescita media per quest’anno.

NONOSTANTE QUESTA SITUAZIONE, la gran parte dei governi dell’America latina rimane fedele al credo della crescita economica come motore indispensabile dello sviluppo e dunque alle politiche estrattiviste. Spinti a questa scelta dalla crescente rivalità delle maggiori potenze economiche per garantirsi materie prime. «L’America latina rimane dunque uno spazio in disputa dove si sviluppano due livelli di scontro – afferma il sociologo venezuelano Miguel Saavedra -. Un livello strategico globale nel quale si confrontano per il controllo di mercati, risorse naturali ed energetiche gli Stati che hanno una strategia economica e militare di portata mondiale: gli Stati uniti – con i loro alleati subalterni europei – Cina e Russia. L’altro livello, all’interno dei differenti stati latinoamericani, vede una crescente lotta dei popolo contro le élites politiche ed economiche per realizzare società più democratiche ed egualitarie».

Naturalmente i due livelli non sono separati, al contrario «tessono diverse e complesse relazioni politiche e economiche che orientano e danno impulsi alla dinamica delle crisi e dei conflitti sociali».

NEL DICEMBRE 2017 l’amministrazione Trump ha reso pubblico un documento, Una nuova strategia per una nuova Era che presenta i lineamenti della sua strategia di sicurezza nazionale e che indica Cina e Russia come paesi che tentano «di configurare un mondo antitetico ai valori» e interessi degli Usa. Questa linea di scontro globale – specie tra Usa e Cina – ha avuto e continua ad avere pesanti riflessi nel subcontinente latinoamericano.

Le corporazioni e imprese rivali dei due giganti sono in competizione diretta per ottenere le materie prime – e a costi bassi- che permettano di soddisfare le esigenze produttive del capitale monopolistico situato nei due paesi. «Sono grandi compratori delle nostre esportazioni – soia, minerali, petrolio – e sono grandi fornitori di beni industriali e di capitali; sono grandi investitori e fornitori di prestiti» scrive Rubén Laufer (Asia Link). Tali politiche, sommate agli interessi delle élites economiche , hanno rafforzato il modello di sviluppo primario basato sulle esportazioni e hanno messo in scacco le strategie di integrazione regionale (Mercosur, la Comunità del Caribe e il Mercato comune Centro americano) intraprese all’inizio del 2000 da una serie di governi progressisti (Venezuela, Cuba, Ecuador, Brasile, Uruguay e Argentina, per limitarsi ai più importanti).

QUESTO CONTESTO ha prodotto – secondo Saavedra – una situazione che «potrebbe essere descritta come una stagnazione strutturale neocoloniale che inibisce ogni progetto di sviluppo indipendente per migliorare le condizioni di vita della popolazione».

Il confronto globale con la Cina soprattutto ha indotto gli Stati uniti a riprendere con ogni mezzo il controllo politico ed economico della regione – il «cortile di casa» degli Usa – anche con ingerenze dirette e appoggio ai vari colpi di Stato contro governi che Washington ritiene contrari ai propri interessi. Come nei golpes del Venezuela 2002, Haiiti 2004, Honduras 2009 e Bolivia 2019. Inoltre gli Usa hanno apertamente appoggiato le lawfare – processi giudiziari – che hanno portato alla destituzione dei presidenti progressisti in Paraguay (Lugo, 2012) e in Brasile (Dilma Rousseff, 2016).

Questa politica è stata riaffermata di recente dal segretario di Stato Mike Pompeo per impedire che le recenti manifestazioni e le proteste dei cittadini – in Ecuador, Cile e Colombia – si trasformino in rivolte sociali. Una strategia foriera di prossime tensioni. La Cina infatti è diventata la principale fonte di finanziamento di progetti di sviluppo regionali superando anche la Banca interamericana di sviluppo e la Banca mondiale.

«Se si sommano solo gli investimenti delle bancHe statali cinesi – China Development Bank e China Ex-Im Bank – ai sei paesi che hanno ricevuto più finanziamenti si arriva al tetto di 136 miliardi di dollari: Venezuela 67,2 miliardi; Brasile 28,9 miliardi; Ecuador 18,4 miliardi; Argentina 16,9 miliardi; Trinidad y Tobago 2,6 e Bolivia 2,5 miliardi», afferma Saavedra. Secondo il Cepal 19 paesi del subcontinente hanno firmato memorandum di accordi con la Cina nel quadro della «Rotta della seta».

Anche la Russia ha negli ultimi anni incrementato le sue iniziative in America latina nell’ambito della strategia del Cremlino di contribuire a un ordine mondiale multipolare in contrasto con la politica di Trump. Dunque ha rafforzato le alleanze politiche economiche e militari con paesi guidati da governi di sinistra – Cuba, Venezuela, Nicaragua e con Ecuador e Bolivia, prima del voltafaccia del presidente ecuadoriano Moreno e del golpe a La Paz – ma anche con il Brasile, paese di importanza strategica ( e dove i militari manifestano un crescente insoddisfazione nei confronti del presidente Bolsonaro). Il Cremlino sta anche cercando di contrastare l’egemonia degli Stati uniti nel campo – strategico – della comunicazione con una serie di media come il canale tv Russia Today (RT) e l’agenzia Sputnik e soprattutto nelle reti sociali.