«Oggi, nel capoluogo della provincia di Farah, è stata eseguita la sentenza di Dio onnipotente contro un assassino». È l’incipit della dichiarazione ufficiale con cui Zabihullah Mujahed, portavoce dell’Emirato islamico d’Afghanistan, ieri ha annunciato la prima esecuzione pubblica da quando, nell’agosto 2021, i Talebani sono tornati al potere.

L’uomo ucciso di fronte a centinaia di persone nello stadio della città di Farah si chiamava Tajmir, «figlio di Ghulam Sarwar» e residente in un villaggio della provincia di Herat, responsabile di aver derubato e poi ucciso con un coltello cinque anni fa un uomo. In seguito, i famigliari della vittima lo hanno rintracciato, denunciandolo alle nuove autorità afghane. Ieri, sono stati proprio i famigliari della vittima a eseguire la condanna (per impiccagione o, secondo altre fonti, con 3 colpi di arma da fuoco). Tutto secondo il diritto islamico, precisa il portavoce dell’Emirato: si tratta di qisas, la “legge del taglione”.

«LA QUESTIONE è stata esaminata da 3 diversi tribunali dell’Emirato in modo molto dettagliato e ripetuto», poi la sentenza è arrivata al leader supremo, Haibatullah Akhundzada, che, dopo averla analizzata con «la massima cautela» e averne discusso in modo «esauriente con un folto gruppo di studiosi, alla fine ha ordinato l’attuazione della sentenza della Sharia». Alla Corte suprema il compito di stabilire la data: ieri.

Hanno fatto le cose in grande, i Talebani. Per i quali l’esecuzione è un punto di svolta nel rapporto con la comunità internazionale e nel modo in cui costruiscono e proiettano all’esterno la loro immagine. Allo stadio, spettatori d’onore erano, tra gli altri, alcuni giudici della Corte Suprema, il ministro degli Esteri Amir Khan Muttaqi, quello degli Interni Sirajuddin Haqqani, il ministro per le Virtù e contro il vizio Mohammad Khaled Hanafi, il vice ministro dell’Economia Abdul Ghani Baradar, l’uomo che ha condotto il negoziato che ha portato nel febbraio 2020 all’accordo di Doha tra Washington e i Talebani. I pezzi da novanta dell’Emirato, tutti presenti, tranne il fantasmatico leader supremo, che non si mostra mai in pubblico. Tutti insieme, per rivendicare l’esecuzione e il nuovo, vecchio corso.

IN UN ANNO, È MOLTO CAMBIATO il modo in cui i Talebani curano la propria immagine. Nel novembre 2021 eravamo nella città di Ghazni, dove – come raccontato sul manifesto – siamo riusciti a raggiungere lo stadio della città nel giorno della prima dimostrazione pubblica di giustizia talebana. Centinaia di persone si affollavano all’ingresso, cercando di entrare. Dentro, due uomini venivano frustrati, rei di aver compiuto atti sessuali giudicati illeciti. Benché annunciata in città nei giorni precedenti, la notizia di quell’evento pubblico non andava però diffusa oltre il perimetro di Ghazni. Vietati telefoni, macchine fotografiche, riprese video. Da poco restaurato, l’Emirato non voleva mostrare il vecchio volto. Guai a parlare delle frustate sui media.

Da allora le cose sono molto cambiate. Anche nell’Emirato, all’interno del quale gli oltranzisti più conservatori hanno saputo meglio degli altri indirizzare politiche e decisioni.

POCHE SETTIMANE FA, a metà novembre, il leader supremo Akhundzada ha reso pubblico un editto con cui ordinava a giudici e funzionari pubblici maggior rigore nell’applicazione della sharia, anche con esecuzioni pubbliche, frustate, lapidazioni, per furti, sequestri, eversione. Così si sono poi moltiplicate le notizie – poco raccontate fuori del Paese – di punizioni corporali per donne adultere, ladri, criminali, cittadini accusati di illeciti morali. Ieri, la prima condanna a morte, a Farah. Non più nascosta, ma rivendicata dal portavoce del movimento, Zabihullah Mujahed.