Siamo pronti alla pace ma anche alla guerra, ripetono a Kabul. «Molti pensano a come difendersi, c’è il diffuso timore di poter perdere tanto», spiega Zaki Daryabi, direttore del quotidiano investigativo Etilaatrooz. Con il processo di pace in stallo, le truppe sulla via di casa, contro l’eventuale offensiva militare dei Talebani si invoca una «moqawamat-e-do», una seconda resistenza. Un’alleanza armata simile a quella che ha resistito negli anni Novanta all’Emirato islamico. Una sorta di Alleanza del nord.

«Per ora è una dimostrazione di forza, non è ancora formata, ma ci sono spinte in questa direzione», racconta Daryabi. Modi diretti e fisico asciutto, ci accoglie nella sede del suo giornale, nel quartiere Kart-e-Char, non lontani da Pul-e-Surk. Lungo il ponte, bancarelle di frutta e verdura, le auto che suonano. Sotto, capannelli di tossicodipendenti.

PER DARYABI CI SONO DUE IPOTESI: «La prima è che prevalga l’idea di gente come Dostum e Mohaqeq, di integrare milizie regionali ed esercito nazionale, di contrastare insieme i Talebani». L’altra, la formazione di milizie fuori dal controllo istituzionale. «È solo un’ipotesi, ma è sul tavolo: se il governo venisse visto come incapace di tutelare tutti, di impedire la presa del potere dei Talebani, i non-pashtun potrebbero armarsi. Fare da sé».

«Piuttosto che finire sotto i Talebani prendo un’arma anche io». Non lontano dalla sede di Etilaatrooz c’è il caffè Simple. L’università di Kabul, chiusa per Covid in queste settimane, è a poche centinaia di metri. Alla moda, nel tardo pomeriggio si riempie di ventenni e trentenni istruiti, che parlano inglese e stanno sui social. Shafaq è avvocato, lavora in un progetto per la riforma della giustizia, con fondi americani. Parla di transitional justice, ma se si mette male si dice pronto a «prendere un’arma».

NELLE CITTÀ, SOTTO I TALEBANI non ci vogliono stare. «Oltre alla spinta per lasciare il Paese, c’è un grande movimento interno: da Kandahar su Kabul, o dalla provincia di Daikhundi a Bamiyan. Si va dove si pensa di essere più sicuri», nota il direttore di Etilaatrooz. Nel Paese, la sicurezza non c’è. I distretti provinciali sono in subbuglio. In Helmand, Kunduz, Badakhshan, Daikundi e altrove. A Kandahar 8 poliziotti uccisi ieri. A Kabul nuovi attentati contro minibus civili, nel quartiere occidentale di Dasht-e-Barchi, dove vive la comunità hazara, la minoranza sciita sotto attacco.

In città la sensazione generale è che l’accordo bilaterale con gli americani abbia galvanizzato troppo i Talebani. Che vadano ridimensionati. Avvertiti: non provate a entrare nelle città. «Le scelte dell’amministazione americana hanno rafforzato i Talebani. Sovrastimano il loro potere, la loro forza. Pensano di poter continuare a conquistare territorio e poi imporre l’agenda del negoziato», ci dice Nargis Nehan, già ministra per il Petrolio e le risorse naturali, ora direttrice di Equality for Peace and Democracy, una delle Ong che hanno fatto propria la liturgia liberale del periodo post-Talebano: empowerment, good governance, civil society. «La verità è che la società civile è debole, la politica divisa, manca una strategia e il consenso su come attuarla».

L’ACCORDO DEL FEBBRAIO 2020 tra Washington e i Talebani non ha ridotto la violenza. Non l’ha fatto l’inizio del negoziato intra-afghano. Neanche l’annuncio del ritiro delle truppe straniere. «Se la diplomazia non funzionasse, molti non lascerebbero che i Talebani prendano il potere facilmente. Farebbero in modo di impedirlo. Perfino la gente istruita si metterebbe in gioco». Per ora, sostiene Nehan, quella dei vecchi leader jihadi è un’esibizione di forza. Nessuna vera alleanza militare. Ma se ne rafforzano le premesse.

 

Marzo 2021. L’ex presidente Hamid Karzai con Ahmad Massoud durante una commemorazione a Parigi del padre di quest’ultimo, il comandante Ahmad Shah Massoud (Ap)

La seconda resistenza è sempre più invocata. «È un termine che circola da più di un anno, ma molto più diffuso da qualche mese», ci spiega Ali Adili, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network. «Retrospettivamente, con prima resistenza si intende quella condotta contro i Talebani dalla cosiddetta Alleanza del nord, soprattutto il Jamiat-e-Islami, il Jumbesh-e-Milli e l’Hezb-e-Whadat. Gli stessi protagonisti di allora, soprattuto del Jamiat, ne parlano: Atta Mohammad Noor, Qanooni, Ahmad Massud, figlio di Ahmad Sha Massud».

Ali Adili riepiloga per noi i casi più rilevanti elencati in un suo recente articolo. A Herat, nella sua residenza il dominus della provincia Ismail Khan, Jamiat-e-Islami, celebra i vecchi mujahedin, accoglie nuovi uomini armati e si dice pronto: «Abbiamo più di 500.000 uomini, difenderemo questa terra. Il governo centrale ci lasci fare».

AHMAD MASSUD, FIGLIO del comandante Massud, si dice pronto a «restaurare il vero sistema islamico che era obiettivo dei nostri martiri e mujahedin». L’ex peso massimo del Jamiat e ora fuoriuscito, Atta Mohammad Noor, dice ai Talebani che è bene «capiscano che siamo ancora vivi e che la nazione si difenderà». L’hazara Mohammed Mohaqeq manda messaggi simili. Nell’Hazarajat spunta la milizia «Dai Chahar». L’ex presidente Karzai dichiara allo Spiegel «stiamo serrando i ranghi e organizzando la resistenza. Dico al Pakistan: siate ragionevoli». Scosse telluriche di assestamento. Nascono dall’impasse del processo negoziale intra-afghano. «Nessuno dei due attori, Talebani e fronte repubblicano, pensa più al processo di pace come piano A», dice Ali Adili. «Entrambi hanno intensificato il conflitto. I Talebani occupando nuovi distretti, il governo concentrandosi sulle capitali provinciali».