«Chiunque abbia preso parte alle ostilità contro l’Emirato islamico è perdonato per le sue azioni passate». Così Haibatullah Akhundzada, leader supremo dei Talebani, nel comunicato con cui celebra «la vittoria dell’intera nazione di musulmani e mujahedin».

Ottenuta sabato scorso a Doha, la firma dell’accordo tra Stati uniti e Talebani legittima politicamente gli eredi di mullah Omar. E lascia ai negoziati intra-afghani, il cui inizio è previsto il 10 marzo, tante questioni cruciali, dall’architettura politico-istituzionale del paese alla spartizione del potere. Omettendo la questione che, più di tutte le altre, alimenta l’instabilità: la giustizia.

Per Hadi Marifat, direttore dell’Afghanistan Human Rights and Democracy Organization (Ahrdo), l’organizzazione non governativa a cui si deve l’apertura nel febbraio 2019 del primo museo dedicato alle vittime di quattro decenni di guerra, le parole di mullah Akhundzada sono «un insulto».

«Invece di supplicare il perdono delle sue vittime», ha scritto su Twitter Marifat, il capo della guerriglia in turbante pretende di perdonare gli altri. E di insulto hanno parlato molti afghani pochi giorni fa, quando il New York Times ha ospitato un editoriale di Sarajuddin Haqqani, numero due degli studenti coranici e leader della rete Haqqani, l’ala più oltranzista e stragista del movimento.

Un articolo ecumenico in cui l’autore, nella lista dei terroristi internazionali, invoca pace, dialogo, coesione. Senza accennare alle vittime del conflitto. Ancor meno alle proprie responsabilità nello spargimento di sangue.

L’accordo tra Stati uniti e Talebani rischia di sotterrare una volta per tutte le rivendicazioni di giustizia degli afghani. «L’ultima speranza è la decisione della Corte penale internazionale», ci ha detto Ehsan Qaane, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network, l’ultima volta che lo abbiamo incontrato a Kabul. Si riferisce a una storia lunga che oggi, 5 marzo 2020, potrebbe cambiare verso.

Attiviste protestano contro l’accordo Usa-Talebani (Foto Ap)

 

Il 12 aprile 2019 la Camera di pre-dibattimento della Corte penale internazionale ha respinto la richiesta, avanzata a fine novembre 2018 dall’ufficio della procuratrice capo Fatou Bensouda, di aprire un’inchiesta ufficiale su presunti crimini di guerra e contro l’umanità in Afghanistan.

Durate molti anni, le indagini preliminari avevano stabilito che ci fossero «prove significative di crimini contro l’umanità e di guerra» condotti dai Talebani e dal network Haqqani, così come di crimini di guerra da parte delle forze di sicurezza afghane e dei servizi segreti locali, oltre che dei soldati Usa in Afghanistan e della Cia.

Per i giudici della Corte non è stato sufficiente. Richiesta respinta. A causa della volatilità politica e della mancanza di risorse, l’apertura dell’indagine non servirebbe «gli interessi della giustizia».

«Uno schiaffo in faccia per milioni di vittime di guerra afghane, in particolare per quei 699 individui e applicanti collettivi che, spesso rischiando la vita, hanno fornito le prove per un giudizio sensato e legittimo» della Corte, ha efficacemente sintetizzato sul sito Security Praxis la ricercatrice Huma Saeed.

Quando lo abbiamo incontrato al Museo delle vittime di Kabul, Hadi Marifat, direttore di Ahrdo, ci ha parlato di «un pericoloso precedente, perché si tratta di una decisione politica, senza base giuridica». L’impressione è che la Corte penale internazionale abbia sofferto le pressioni dell’amministrazione Trump, che considera il lavoro della Corte «un attacco allo stato di diritto americano», come dichiarato il 15 marzo 2019 dal segretario di Stato Usa, Mike Pompeo.

Per il ricercatore Eshan Qaane, conta senz’altro la posizione del governo statunitense, ma anche una convinzione più ampia e radicata: «L’idea che, per dirla con le parole di Lakhdar Brahimi», rappresentante speciale delle Nazioni unite in Afghanistan dal 2001 al 2004, «in Afghanistan ‘si possa ottenere o la pace o la giustizia’, non entrambe le cose».

Una tesi consolidata. «Di giustizia non c’è traccia in nessuno degli accordi politici degli ultimi 40 anni. Non negli accordi di Ginevra del 1988», tra il governo del presidente Najibullah e il Pakistan sostenitore dei gruppi mujahedin, «non nell’accordo di Bonn» successivo al rovesciamento dell’Emirato islamico nel 2001, «non in quello che ha garantito impunità al leader di Hezb-e-Islami», Gulbuddin Hekmatyar, rientrato nell’agone istituzionale letteralmente su un tappeto rosso, spiega Qaane.

L’accordo tra Usa e Talebani segue la stessa logica. Per questo, molti lo considerano monco. «L’ho anche detto a Brahimi quando ci siamo incontrati: la pace senza giustizia non ha valore», ci ha raccontato Aziz Rafiee, volto noto della società civile e direttore dell’Afghan Civil Society Forum Organization. Per il quale «in un paese c’è pace quando c’è fiducia nel sistema e la fiducia non può che venire dalla giustizia».

Oggi i giudici della camera di Appello della Corte penale internazionale dovranno decidere se accogliere o meno il ricorso di Bensouda contro la decisione dell’aprile scorso con cui era stata respinta la sua richiesta di aprire un’inchiesta sui crimini in Afghanistan. «È davvero l’ultima speranza per ottenere qualche forma di giustizia. Ma gli attivisti della società civile sono ottimisti. Potrebbe essere la volta buona», sostiene Eshan Qaane.