L’ordine esecutivo del presidente uscente, Donald Trump, ancora non c’è, ma potrebbe arrivare a giorni: via le truppe da Afghanistan, Iraq e Somalia il prima possibile. «Non siamo gente da guerra perpetua – è l’antitesi di ciò per cui ci battiamo e per cui i nostri avi hanno combattuto. Tutte le guerre devono finire».

Così il segretario in carica alla Difesa Usa, Chris Miller, in una lettera del 13 novembre inviata agli impiegati del Dipartimento della Difesa. «Confermiamo l’impegno a completare la guerra che al Qaeda ha portato sulle nostre coste nel 2001», ma «è tempo di tornare a casa», scrive l’uomo con cui Donald Trump ha sostituito Mark Esper. Secondo il Washington Post, Esper pochi giorni fa aveva inviato un memo classificato alla Casa Bianca dicendosi preoccupato di un ritiro «precipitoso» dall’Afghanistan. È stato poi silurato.

LA NOMINA DI MILLER segnala la volontà di Trump di procedere in fretta. Più in fretta di quanto stabilisca l’accordo tra Stati uniti e Talebani firmato a Doha il 29 febbraio 2020, che prevede il ritiro completo entro l’1 maggio 2020.

Trump finora ha rispettato i patti: le truppe americane sono passate da 13mila a febbraio a 8.600 a giugno, oggi sono 4,500 circa ed entro il 15 gennaio – 5 giorni prima dell’insediamento di Joe Biden – potrebbero essere ridotte a 2.500, secondo il calendario fornito in passato da Robert Charles O’ Brien, consigliere per la sicurezza nazionale, e confermato dalle indiscrezioni di questi giorni. A Trump potrebbe non bastare: alla vigilia delle elezioni ha dichiarato di voler portare tutti a casa entro Natale. Riuscire a farlo entro Natale o gennaio è impossibile, a meno di non lasciare tutto l’equipaggiamento sul terreno, ha notato l’esperto militare Jonathan Schroden: in Afghanistan ci sono 4.500 soldati Usa, 6.500 circa della Nato, almeno 20mila contractor e poi elicotteri, camion, armi, strumenti sensibili che il Dipartimento della Difesa non vuole abbandonare o distruggere. «Servono mesi per il ritiro completo». Mesi durante i quali Kabul spera di rafforzarsi.

Donald Trump lascia infatti in eredità a Joe Biden un accordo bilaterale tra Usa e i Talebani che ha fortemente penalizzato il governo di Kabul, escluso dall’accordo, e rafforzato i Talebani, passati all’incasso. Hanno ottenuto il ritiro, legittimità politica internazionale e il rilascio di 5mila prigionieri, senza dover mai riconoscere il governo afghano e senza dover abbandonare le armi, se non contro gli americani. I Talebani e Kabul, che il 12 settembre hanno inaugurato il dialogo intra-afghano, aspettano di vedere le mosse di Biden: un periodo di incertezza che verrà sfruttato dagli attori contrari alla pace, dentro e fuori dal Paese, dentro e fuori dai due fronti. Il presidente Ashraf Ghani si dice pronto alla collaborazione con Biden e a ospitare una forza residuale per il controterrorismo, opzione che Biden coltiva da anni ma a cui si oppongono i Talebani. Questi ultimi mandano a dire che l’accordo di Doha rimane «un documento eccellente», mentre alcuni esponenti politici afghani ne negano la validità giuridica. Che Biden possa rivedere l’accordo è difficile, revocarlo impossibile: sarebbe una replica di quanto fatto da Trump con l’accordo sul nucleare iraniano.

PARTITO DA POSIZIONI interventiste e muscolari, dal 2008-2009 Biden considera la guerra afghana impossibile da vincere, il governo di Kabul corrotto e inefficiente. Di recente, su Foreign Affairs e su Stars and Stripes, ha confermato di «sostenere il ritiro delle truppe». Potrebbe rallentare il calendario di Trump, esercitare pressioni sui Talebani affinché riducano davvero la violenza e poi accettino il cessate il fuoco. Ma ha margini stretti. Trump si è già giocato tutte le carte migliori, a eccezione della leva finanziaria: Trump o Biden, per gli Stati uniti la guerra afghana è chiusa. E persa.