Sono almeno 62 le vittime dell’attentato che ieri ha colpito una moschea nella provincia orientale afghana di Nangarhar, al confine con il Pakistan. Un bilancio provvisorio, destinato ad aggravarsi a causa della condizione di alcuni dei 40 feriti. Colpiti durante la preghiera del venerdì in una moschea del distretto di Haska Mena, 50 km circa dal capoluogo della provincia, Jalalabad. La strage non è stata rivendicata, ma gli occhi sono puntati sulla «Provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, già responsabile di stragi efferate in Afghanistan. La provincia di Nangarhar è una di quelle in cui il gruppo è più attivo, insieme a quelle di Kunar e, al nord, del Badakhshan.

L’attentato è avvenuto il giorno successivo alla pubblicazione dell’ultimo rapporto di Unama, la missione dell’Onu a Kabul, sulle vittime civili. Nei primi 9 mesi del 2019, sono 2.653 i civili afghani rimasti uccisi. Per il 47%, la responsabilità va ricondotta ai gruppi antigovernativi (Talebani e Isis), che hanno ucciso 1207 persone; per il 45%, alle forze pro-governative, incluse quelle straniere (1149 morti). I feriti sono stati invece 5.676, secondo l’Onu. Complessivamente, i civili feriti o morti nei primi 9 mesi del 2019 rappresentano il 42% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Una tendenza che non è stata interrotta né invertita nel corso dei colloqui che per mesi hanno impegnato a Doha l’inviato del presidente Usa, Zalmay Khalilzad, e una delegazione talebana.

Il negoziato, che aveva portato all’intesa su un accordo la cui firma sembrava imminente agli inizi di settembre, è stato interrotto inaspettatamente il 7 settembre da Donald Trump. Nelle ultime settimane i due fronti sono tornati ad avvicinarsi, ma formalmente i colloqui sono ancora sospesi. E la guerra continua.