Dai cimenti letterari che si prefiggono catalogazioni titaniche scaturiscono di solito stravaganti libelli di poche o pochissime pagine: un apparente paradosso che si spiega con la vertigine procurata da ogni esercizio di elencazione, «genere»  disteso sulla pagina, per ovvie ragioni, in uno spazio contenuto. Stando tuttavia agli esperimenti più riusciti, almeno in ambito ispanofono e ispanoamericano, la spiegazione meno scontata è che nell’accumulare, mentalmente e fattualmente, il materiale plausibile, lo scrittore-catalogatore si scontra facilmente con l’impossibilità di portare i propri progetti al di là delle mere intenzioni: il tentativo di esaurire un qualsivoglia «elenco» si misura infatti, fin da subito, con una proliferazioni potenzialmente infinita e dunque con la sua impraticabilità.

Così sono passati alla storia della letteratura, soprattutto nel secolo scorso, testi che conservavano, di mirabolanti e altissime intraprese, soltanto uno scherzoso titolo, divenuto ipso facto memorabile palinsesto di un’opera cancellata perché inconcepibile: una rassegna bibliografica – anch’essa ardua – si dovrebbe forse aprire con Storia dell’eternità e Storia universale dell’infamia di Borges; e approderebbe idealmente a Bartleby e compagnia di Enrique Vila-Matas, catalogo degli «scrittori del no», coloro che hanno opposto al mondo, e alla scrittura, un radicale diniego.

Da questa infattibilità conclamata non può che scaturire una catalogazione che, assecondando la più assoluta arbitrarietà della selezione, si trasforma nei casi più felici in un vero journal intime – per gli scrittori  sempre un diario delle letture predilette – nel quale la scelta è di natura elettiva, spesso capricciosa, quasi mai scontata. E quando a confrontarsi con l’allegra impasse della elencazione è un grande scrittore, le sue preoccupazioni risponderanno, facilmente, a un criterio estetico.

Al capolavoro di Vila-Matas somiglia per diversi aspetti L’ultimo lettore di Ricardo Piglia (ora riedito da Sur nella traduzione di Alessandro Gianetti, la stessa dell’edizione italiana Feltrinelli, datata 2007 (pp. 223, € 17,50) che, con tutte le sue eccentricità, si può magnificamente accodare alla rassegna novecentesca dei libri-catalogo letterari, in un certo senso concludendola, essendo un titolo uscito in Argentina nel 2005.

Tra queste pagine, Piglia propone niente meno che una «storia immaginaria», fondata sulle «raffigurazioni del lettore nella letteratura». Ma deragliando subito dalle sue dichiarazioni, avvia, con un suggestivo racconto introduttivo, un romanzo-saggio-divagazione, nel quale i  «lettori» prescelti vanno da Anna Karenina che regge la lanterna – oggetto emblematico del ritratto scomposto in più pannelli al quale lavora lo scrittore argentino, e che tornerà, per esempio, con Kafka e l’immagine della compagna intenta a spegnergli la lampada – a Che Guevara che legge appollaiato sul ramo di un albero, in Bolivia, mentre la reazione lo bracca per ucciderlo, fino ai detective Dupin e Marlowe, incarnazioni di due ideali diversi e complementari di lettore: Dupin comincia la sua vita sulla pagina condividendo con chi legge la sua ricerca di un libro raro in una libreria di Parigi; Marlowe, che alla intelligenza «pura» del decifratore associa l’incorruttibilità, è un inamovibile solitario, come ogni lettore.

Nel suo personalissimo diario di letture, derivato anche dal fatto che Piglia diresse per anni, a Buenos Aires, una collana di polar, sono due i numi tutelari: Borges, e la sua figura di lettore «mostruoso», che saccheggia i testi, li cita «male», poi felicemente li interpreta; e Joyce, lettore «affetto da una insonnia ideale», in grado di decrittare tutte le lingue, e chiamato a guadagnarsi, all’interno dei meccanismi narrativi di Ulysses (titolo che a una pronuncia anglo-francese suona – ma questo Piglia non lo dice – You Lisez!, ovvero «voi leggete»), e poi di Finnegans Wake, una nuova, inusitata centralità.