I 12.072 seggi aperti per il referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno e i 5,2 milioni di aventi diritto al voto ieri erano sotto assedio. Quello politico e militare dei vicini, potenze regionali e Stati semi-falliti in disaccordo su tutto ma non sul voto voluto dal presidente del Governo regionale del Kurdistan, Massoud Barzani.

Tra i primi a infilare la scheda nell’urna e alla caccia di consenso in una regione schiacciata da crisi economica e corruzione strutturale, è stato seguito da lunghe file e la proroga di un’ora del processo elettorale. All’uscita una scena ormai nota, rilanciata sui social da kurdi entusiasti: il dito sporco di inchiostro, la prova del voto.

L’affluenza si è attestata sul 78% (picchi del 92% nella yazidi Sinjar, l’84% a Erbil e l’80% nella multietnica Kirkuk). I risultati preliminari, fa sapere la Commissione elettorale, saranno resi noti oggi. Un voto consultivo, insiste Barzani, che non porterà all’indipendenza immediata, ma a uno-due anni di negoziati con Baghdad. In ogni caso, ribadisce, «non torneremo ad una partnership fallimentare» con «uno Stato teocratico e settario».

Nonostante le pressioni degli alleati, a partire dagli Usa che temono il collasso del governo iracheno, ieri il referendum si è tenuto. Per le strade gente in estasi sfilava con la bandiera kurda e gli abiti della tradizione.

A Dohuk, Suleymaniya, nella capitale Erbil, ma anche nelle zone calde, dove il voto potrebbe far esplodere conflitti affatto latenti: Kirkuk in primis, ma anche le province di Salahaddin, Diyala, Ninive che dal 2003 Baghdad e Erbil si contendono.

Ieri sono finite nel mirino del parlamento iracheno: i deputati hanno votato la richiesta al premier e capo delle forze armate al-Abadi di dispiegare le truppe «in tutte le zone di cui la regione autonoma del Kurdistan ha assunto il controllo dopo il 2003», mentre unità dell’esercito prendevano parte a esercitazioni congiunte con i turchi al confine con il territorio kurdo-iracheno.

Dopo le misure legali (sospensione degli stipendi ai dipendenti pubblici che partecipano al voto, stop alle compagnie pubbliche che operano nelle aree contese e ordine di cedere al governo centrale il controllo dei valichi di frontiera e dell’aeroporto di Erbil) è la prima reazione militare ad un referendum che Baghdad giudica incostituzionale.

E non è l’unica: l’Iran ha lanciato un’esercitazione militare al confine, chiuso lo spazio aereo ai voli da Erbil e Suleymaniya e sospeso quelli diretti in territorio kurdo, embargo che potrebbe avere – se reiterato – effetti su una regione di cui l’Iran è primo partner commerciale con 5 miliardi di dollari di scambi annuali.

Più dura la reazione turca: ieri il presidente Erdogan ha minacciato l’invasione del nord dell’Iraq (dove i suoi soldati in realtà sono già presenti, proprio a sostegno dei peshmerga intorno Mosul) e la sospensione del business energetico, in particolare la chiusura dell’oleodotto che collega Kirkuk alla turca Ceyhan.

I due avversari, Ankara e Teheran, si ritrovano su un terreno comune: Erdogan volerà nella capitale iraniana il 4 ottobre, visita anticipata ieri da una telefonata con il presidente Rouhani. In ballo c’è molto: non solo spinte simili da parte delle rispettive minoranze kurde (divise in merito all’indipendenza del Krg) ma anche l’eventuale implosione delle strategie nazionali sul piano regionale.

L’Iran mantenere integro il vicino Iraq, parte di quell’asse sciita che arriva a Damasco e al Libano; la Turchia promuove l’idea di un Iraq federato, dove l’autonomia kurda (non l’indipendenza) sia porta di ingresso ad un territorio ricco di risorse e ponte verso un’entità amministrativa sunnita vicina, da costituirsi nell’ovest del paese.

Ma il conflitto più pericoloso è quello interno. E ruota intorno alla multietnica e ricchissima Kirkuk, contesa da decenni e passata prima per l’arabizzazione forzata di Saddam Hussein (che attirava gli sciiti poveri del sud con case e denaro e cacciava le famiglie kurde) e poi per la kurdizzazione post-Isis (stessa pratica: incentivi agli arabi per andarsene, ai kurdi per trasferirsi).

Qui la tensione è al massimo, cartina di tornasole del conflitto intra-iracheno: in serata è stato annunciato il coprifuoco per evitare violenze. Le minoranze turkmena e araba temono la secessione. E la presenza diffusa di armi nelle mani dei clan e quella delle milizie sciite ai confini della città (da anni impegnate in scontri con i peshmerga) allontana la pacificazione.