Intitolato all’«ultimo uomo universale», da 73 anni è sinonimo della cultura tedesca nel mondo. Ma è anche lo strumento geopolitico che dopo la Seconda guerra mondiale ha permesso, più di qualunque altro, di cambiare completamente l’immagine della Germania uscita incenerita dal nazismo e non ancora sui binari della Locomotiva economica d’Europa. Non a caso l’ex cancelliere Willy Brandt lo considerava come la più chiave più efficace per aprire le porte alla sua Ostpolitik della distensione con i comunisti, perfino più dei miliardi di marchi prestati “a babbo morto” ai cugini della Ddr.

Insomma fin dalla sua fondazione nel 1951 il Goethe-Institut ha rappresentato la principale proiezione della Repubblica federale all’estero grazie alla presenza di un network ultra-capillare basato su 158 sedi in 99 Paesi e con oltre 1.000 partnership attive. Finché il governo Scholz ha deciso, per l’appunto, che tutto ciò appartiene al passato prossimo alla luce della sua «riforma» per aggiornare il «bacino di utenza» dell’ente culturale destinato a essere «riorientato altrove».

CON QUESTE PAROLE a Berlino traducono ufficialmente la valanga di tagli al Goethe-Institut che ha già provocato la chiusura di 9 sedi storiche, tra cui Torino, Genova e Trieste, con il «ridimensionamento» di Napoli, ma anche Bordeaux, Strasburgo e Lille, mentre l’ufficio in Israele e le attività a Ramallah (co-gestite con la Francia) chiudono i battenti causa guerra in corso.

A far fede, però, come sempre è solo il bilancio federale nelle mani del ministro delle Finanze, Christian Lindner, leader dei liberali: il finanziamento annuo per l’ente – già passato da 250 milioni di euro del 2021 a 239 del 2023 – il prossimo anno sarà ridotto di ulteriori 24 milioni. Come operazione di rilancio appare come minimo singolare. Per le identiche esigenze delle forze armate il governo Scholz ha stanziato 100 miliardi e per la svolta energetica voluta dal vice-cancelliere Robert Habeck dei Verdi esattamente il doppio.

«UNA RIFORMA dell’istituto per poter stare al passo coi tempi certamente si rende necessaria» specifica Claudia Roth, ministra della Cultura dei Verdi ed ex vicepresidente del Bundestag, quasi fosse d’accordo con la decisione del governo di cui fa parte. Invece è il primo segno della crepa politica che corre per tre quarti della coalizione Semaforo. «Di conseguenza bisognerebbe aumentare i fondi, non diminuirli» è la seconda parte del ragionamento di Roth in grado di mandare in tilt anzitutto il suo partito. Chi ha formalmente apposto la firma sotto ai tagli per il Goethe-Institut (ma anche per la Fondazione Humboldt, altra storica istituzione culturale) è la collega ministra degli Esteri, Annalena Baerbock, co-leader dei Verdi.

Analogo paradosso in campo socialdemocratico. La presidente Spd della commissione Cultura del Bundestag, Katrin Budde, ha espresso pubblicamente la «forte preoccupazione per i continui tagli ai fondi per il Goethe-Institut» imposti dal “suo” cancelliere con tanto di plauso della Cdu, egualmente favorevole all’austerity culturale. Forse le distinzioni, certamente autentiche, rappresentano il minimo sindacale per i due partiti progressisti del governo Scholz. In cui si comincia davvero ad avvertire il crescente clamore delle proteste in Italia e soprattutto in Francia dove il mondo della cultura si è ribellato in massa al taglio del ponte culturale fra i due Paesi messo in piedi – come ricordano a Parigi – per assicurare la Pace in Europa.

ALL’ATTENZIONE DI BERLINO il pesante appello contro la chiusura delle sedi francesi e il licenziamento dei 130 dipendenti lanciato dall’unione delle associazioni franco-tedesche d’Europa (Vdfg) sottoscritto già da oltre 45 istituzioni e quasi 500 personalità culturali.

La presidente del Goethe-Institut, Carola Lenz, non può fare altro che prendere atto della scure governativa. Ma quando l’autorevole sociologa dell’Università “Johannes Gutenberg” di Magonza si è insediata alla guida dell’ente a novembre 2020 non immaginava certo di dover aggiornare in questo modo la vocazione dell’istituto erede della prestigiosa Accademia tedesca del 1925.

SULLA CARTA il Goethe-Institut rimane pienamente autonomo come prevede l’accordo-quadro con il ministero degli Esteri in vigore dal 1976, tuttavia le sue attività, dai corsi di tedesco a cui si iscrivono circa 230mila partecipanti all’anno alle centinaia di esposizioni e alle conferenze, dipendono direttamente dai fondi statali. In più il governo può mettere il veto a qualunque evento internazionale o sospendere i dipendenti per «comportamenti politicamente dannosi».

La richiesta del governo Scholz alla professoressa Lenz è chiara: meno attività negli Stati in cui la presenza tedesca è consolidata e più attenzione a Est Europa, America e Africa. Viene da qui la “riforma” del Goethe-Institut che gli scrittori di “Pen-Berlino” non esitano a definire «politicamente miope».