Da lettrice accanita, Jenny Jägerfeld, come ogni svedese che si rispetti, da piccola è cresciuta a pane e Astrid Lindgren, imbevendo la sua fantasia anche con le avventure di un altro grande della letteratura per l’infanzia, Ulf Stark. Suo padre aveva una vasta stanza zeppa di libri ed era lui a elargire i consigli. Quando le diceva di lasciar perdere («sei troppo giovane per questo romanzo»), lei però disobbediva, andando di nascosto a sbirciare le storie proibite. Da adulta ha continuato voracemente a sfogliare pagine, dai classici ai thriller alla saggistica, coltivando dentro di sé il sogno di scrivere. Una passione che ha nutrito in segreto, riempiendo quaderni e files del computer per anni, mentre faceva la psicologa dopo aver tentato anche la scuola di giornalismo, «trascorrevo troppo tempo all’estero per poter sapere cosa stesse accadendo nel mio paese e all’esame non passai».

MA I CASSETTI DEI SOGNI a volte si aprono d’improvviso e a Jenny Jägerfeld è successo in un momento denso di cambiamenti esistenziali. Lo racconta seduta al bar dell’Exmà quasi urlando perché la musica delle prove di un concerto sovrasta la sua voce, lì nel cuore pulsante del festival Tuttestorie di Cagliari dove la abbiamo incontrata prima della sua partenza per il Salone di Torino (oggi, alle 10,30, dialogherà con il pubblico del Lingotto insieme a Eros Miari).

La coincidenza magica? Erano i giorni in cui stava nascendo la sua prima figlia e contemporaneamente veniva alla luce, finalmente pubblicato dall’editore, anche il suo romanzo d’esordio. «Gli studi psicologici erano stati la mia seconda scelta, poi ho scoperto quanto fosse interessante intercettare pensieri e sentimenti delle persone. Da un anno, scrivo soltanto e tengo una rubrica su un quotidiano per adulti e una per ragazzi. Mi tempestano tante domande e mi impegna molto rispondere».

Il suo libro, arrivato in Italia prima dell’estate, è La mia vita dorata da re (Iperborea, pp.320, euro 16). Presto diventerà una trilogia: nella primavera svedese uscirà il secondo della serie (da noi nell’autunno 2022, titolo provvisorio La mia morte spaziale col botto, sempre Iperborea) e l’autrice è già alle prese con il terzo.

COME PER TUTTI i suoi lavori, anche questa opera è frutto della disciplina che Jägerfeld applica alle sue giornate. «Utilizzo il ’metodo pomodoro’ che prende il nome dal timer della cucina che ha quella forma. Venticinque minuti di lavoro senza distrazioni, focalizzata solo sulla storia di un albero o la caratteristica di un personaggio, poi cinque di pausa. Intorno, vige il silenzio assoluto, anche il cellulare è messo in un box a tempo, per evitare tentazioni…». E l’ispirazione viene dalla quotidianità da un particolare qualunque notato in strada, una giacca originale, una scena a cui si è assistito per caso.

Ne La mia vita dorata da re, il protagonista è Sigge, che arranca nei rapporti sociali ed è bersagliato da compagni più smaliziati di lui. Il riscatto però esiste e si chiama Royal Grand Golden Hotel Skärblacka, un luogo gestito dall’esuberante nonna Charlotte in una piccola cittadina di provincia. Quindi Sigge abbandona Stoccolma per rinascere altrove, in un viaggio al contrario rispetto a molti altri letterari. «Quando ci si sposta – spiega la scrittrice – si ha l’opportunità di presentarsi all’altro ripartendo da zero. Ovviamente, si è sempre se stessi: è difficile che un timido possa presentarsi in maniera opposta, ma Sigge vuole cogliere l’occasione di essere percepito in modo differente. Nella sua città era bullizzato e considerato gay perché amava il pattinaggio sul ghiaccio. Adesso è in cerca di una popolarità. In realtà, ha bisogno di veri amici e confonde un po’ i piani tra la dimensione della popolarità e quella dei legami affettivi. Ho voluto fargli compiere un percorso alla rovescia perché immaginavo Sigge al centro di una famiglia allargata e stimolante (come la figura della fantastica nonna) che lo proteggesse nel corso delle sue nuove esperienze».

IL TONO IRONICO di questo romanzo di formazione è lo stesso che si ritrova anche in un libro come Miss Comedy Queen, che parte da presupposti assai diversi: Sasha, la protagonista, ha qui l’urgenza di liberarsi del peso del suicidio di sua madre e cerca la strada della comicità per affermarsi nel mondo, con leggerezza. «Quando ho scritto quella storia avevo un lutto da superare: la mia migliore amica di quando studiavo psicologia ha sposato mio fratello, hanno avuto due bambini, poi si è ammalata ed è morta. La vicenda di Sasha mi ha aiutata a elaborare la tristezza: vedevo mio fratello fare tutto da solo e mi chiedevo: ’come ci si può alzare la mattina e funzionare, dopo un dolore del genere?’. E, allo stesso tempo, incontravo ragazzini che avevano avuto storie simili in famiglia. Il suicidio è ancora un tabù. Si teme che parlandone si possano istigare le persone a compierlo, invece è un modo per permettere di chiedere aiuto. In Svezia non so se ci siano più suicidi che in altri paesi, ma di certo abbiamo statistiche più accurate e non nascondiamo le cause di queste morti. La fascia d’età più colpita è quella che va dai 25 ai 50 anni. Spesso si tratta di uomini, piegati dalla solitudine, incapaci di ascoltare le proprie emozioni e di condividerle. Nelle morti di giovani, il suicidio conta numeri altissimi rispetto ad altri ’incidenti’».