Per imporre il progetto del tutto impropriamente definito “Tren Maya”, il presidente López Obrador è disposto a tutto. Non lo hanno fermato le denunce dei popoli indigeni, le critiche feroci degli ambientalisti, i tira e molla giudiziari, la lievitazione dei costi. Non lo ha fermato neanche la sospensione della costruzione del quinto tratto della linea ferroviaria, quello tra Playa del Carmen e Tulum, decisa dal giudice federale Adrián Fernando Novelo Pérez del Tribunale dello Yucatán.

È il tratto più contestato, a causa delle immagini, divenute virali, dell’impietoso disboscamento già operato a Playa del Carmen, sulla costa caraibica dello stato di Quintana Roo: un orribile squarcio di circa 12 chilometri all’interno della foresta vergine. «Ecco la devastazione compiuta dalla mano federale di un presidente a cui nessuno ha detto che i turisti sono arrivati senza necessità di un treno», si leggeva su Twitter in uno degli innumerevoli commenti ai video circolati lo scorso marzo. E, in un comunicato congiunto, 48 organizzazioni avevano chiesto al presidente di fermare i lavori, lanciando l’allarme sulla prevista deforestazione di una superficie di almeno 720 ettari, come pure sui prevedibili danni tanto alla rete di fiumi e cenote (grotte carsiche collassate che hanno dato luogo a piccoli laghi circolari o lagune) quanto a specie a rischio di estinzione come il giaguaro, il gattopardo americano e la scimmia ragno.

A fermare lo scempio, riconoscendo il pericolo di danni irreversibili all’ambiente, ci aveva pensato invece il giudice Novelo, prima, il 18 aprile, con una sospensione temporanea, poi, il 30 maggio, con una definitiva, nuovamente ribadita il 25 luglio. Ma López Obrador, chiamato più sbrigativamente Amlo, non si è scoraggiato e, allo scopo di aggirare la disposizione giudiziaria, ha dichiarato il Tren Maya un’opera di sicurezza nazionale: perché, ha spiegato, «è un’opera prioritaria», perché, con la sospensione, si sta perdendo denaro pubblico, perché quanti «si sentono padroni del paese» stanno applicando tattiche dilatorie e perché le organizzazioni «pseudoambientaliste» che si oppongono al progetto sarebbero finanziate dagli Stati Uniti. Motivazione, quest’ultima, sempre buona per screditare le associazioni ecologiste e indigene (vi ricorse anche Evo Morales all’epoca del conflitto attorno al Tipnis, il Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure, minacciato dalla costruzione di una strada tra Cochabamba e Beni).
«Prioritaria», l’opera, lo è sicuramente per il presidente, il quale l’ha considerata fin dall’inizio del suo mandato come il fiore all’occhiello del modello di sviluppo “sostenibile” della sua tanto propagandata “quarta trasformazione” ed è determinatissimo a concluderla entro i sei anni del suo mandato.

Si tratta della costruzione di 1.554 chilometri di linea ferroviaria attraverso la foresta umida tropicale mesoamericana allo scopo di collegare le principali aree turistiche della Penisola dello Yucatán, garantendo enormi profitti al capitale finanziario in alleanza con il settore immobiliare e quello turistico.

Un progetto che di sostenibile non ha nulla, prevedendo, per ogni stazione ferroviaria nei cinque stati interessati dai lavori (Chiapas, Tabasco, Campeche, Yucatán y Quintana Roo), la costruzione di centri commerciali, hotel e resort a scapito di ecosistemi fragili e dalla straordinaria biodiversità come pure del patrimonio culturale dei popoli indigeni, i quali di quest’opera contestano persino il nome, dal momento che a volerla non sono stati certo i Maya. «Non vogliamo diventare come Cancun, dove gli unici beneficiari sono le catene alberghiere e di ristorazione», avevano denunciato da subito le comunità originarie.

Critiche, denunce e disposizioni giudiziarie vengono, tuttavia, allegramente ignorate da Amlo, il quale sostiene che la gente «è d’accordo», salvo ovviamente gli «pseudoambientalisti» prezzolati dagli Usa, e che «i proprietari dei terreni per dove passerà il Tren Maya stanno dando tutti il loro consenso».

E ciò malgrado il sito di fact-checking «Verificado» abbia elencato dettagliatamente le manifestazioni di protesta e le espressioni di dissenso che si sono susseguite a partire dal 20 settembre del 2019, da parte di oltre 150 organizzazioni indigene, di un gran numero di associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e dell’ambiente, di cittadini, di intellettuali e di artisti. Senza contare i 25 procedimenti giudiziari portati avanti con il coinvolgimento di oltre 300 persone.

E se è vero che, dal 15 novembre al 15 dicembre del 2019, una consultazione indigena sul Tren Maya c’era in effetti stata, l’Ufficio messicano dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani era stato però piuttosto chiaro, denunciando il mancato rispetto degli standard internazionali in materia, i quali esigono un consenso dei popoli «previo, libero, informato e culturalmente adeguato».

Informato, però, quel consenso non era di certo, dal momento che l’informazione verteva solo sui presunti vantaggi per i popoli indigeni, omettendo completamente i danni certi. Né la consultazione poteva definirsi previa, avendo il governo già deciso di realizzare l’opera. E tanto meno era stata culturalmente adeguata, considerando che la metodologia era stata imposta dalle autorità anziché concordata con le comunità coinvolte. Cosicché i tempi erano stati troppo ridotti, le traduzioni, quando c’erano, non all’altezza e la partecipazione condizionata dalle necessità economiche, per non parlare dell’esclusione di persone e gruppi.

Riguardo poi ai costi del progetto, López Obrador, affidando direttamente alla Sedena (Secretaría de la Defensa Nacional) la costruzione dei 67.665 chilometri del quinto tratto, ha dovuto interrompere anticipatamente il contratto che il Fonatur (Fondo Nacional de Fomento al Turismo, l’organismo responsabile della progettazione e dello sviluppo dei progetti turistici) aveva firmato con il conglomerato Grupo México e l’azienda spagnola Acciona.

Una decisione che ha comportato il pagamento di una penale di oltre 5 miliardi di pesos, elevando ulteriormente i costi del progetto, già parecchio lievitati a causa soprattutto dell’aumento dei prezzi delle materie prime, dei tanti contrattempi registrati e del braccio di ferro con il potere giudiziario: il Tren Maya, ha dichiarato il 26 luglio López Obrador, costerà alla fine tra i 15 e i 20 miliardi di dollari, il 70% in più di quanto previsto inizialmente.

E neppure si tratta dell’unica dispendiosissima e devastante opera del suo mandato: ugualmente contestati sono infatti il Corredor Transístmico, che prevede la realizzazione di sei parchi industriali e agro-industriali, l’adeguamento dell’attuale tratto ferroviario, la costruzione in parallelo di un corridoio autostradale; l’aeroporto internazionale di Santa Lucía; la raffineria Dos Bocas e, soprattutto, il Proyecto Integral Morelos, un enorme progetto energetico che interessa gli stati di Puebla, Morelos e Tlaxcala, con la costruzione di una centrale termoelettrica, di un acquedotto e di un gasdotto che dovrebbe passare per le falde del vulcano Popocatépetl.