Da Londra a Kabul, da Manila a Teheran – fino al remoto confine fra Mali e Niger – il Ramadan jihadista ripropone lo schema del terrore stragista, mentre il sedicente Califfato combatte all’interno delle sue ultime roccaforti, a Mosul come a Raqqa. In Europa la violenza jihadista assume sempre più la forma della psicosi che si propaga durante eventi pubblici. Se si osserva la sequenza degli attacchi condotti fuori dagli scenari di guerra, il declino del profilo militare del sedicente Stato Islamico appare chiaro.

La fine del Califfato, tuttavia, difficilmente verrà accompagnata da una riduzione del numero di attacchi. Il terrorismo jihadista ha da tempo imboccato la direzione che porta verso forme più diffuse, opportunistiche e molecolari di violenza, secondo modalità che non presuppongono addestramento militare: valga come illustrazione l’attacco al London Bridge, condotto fra la folla con un furgone, con false cinture esplosive e coltelli. L’arresto in Germania di un sospetto «giornalista» dell’agenzia Amaq, autrice delle rivendicazioni, getta luce su come Daesh cerchi il massimo effetto con il minimo sforzo.

È un fatto che, vedendo avvicinare la fine, al Adnani, già autore del proclama di nascita del Califfato, abbandonò la retorica trionfalistica celebrativa della sua vigorosa espansione, affermando che la conquista delle città non avrebbe significato certo la vittoria di «crociati e apostati» – americani, europei e i loro complici – e moltiplicando gli inviti ad ucciderli per vie disperse, ovunque e comunque.

Eppure, ancora una volta leggiamo di possibili incomprensioni nei passaggi di segnalazioni fra agenzie di sicurezza nazionali, e ancora una volta campeggiano sugli schermi i cliché della messa in onda del terrore. Innervata da media fobocentrici, la politica ripete lo slogan ‘non cambieremo i nostri stili di vita’ mentre fatica a sottrarsi alla reiterazione degli schemi che già li stanno cambiando: i leader occidentali si sfidano evocando la «necessità di un cambiamento radicale», salvo poi non uscire mai dalla coazione a ripetere. Come ha osservato Myriam Benraad, «la comprensione della minaccia e la strategia antiterrorista restano dominate dalla credenza arcaica di una guerra geografica, santuarizzata»: insomma scoviamo i loro covi e neutralizziamoli.

I jihadisti si professano cittadini del jihad, mentre gli stati scontano il limite di pensare e muoversi come stati.

Da questo punto di vista, gli annunci di Theresa May sul finale insanguinato di campagna elettorale hanno rappresentato un momento significativo. Avvertendo il calo di consensi, e sentendosi presentare il conto del suo passato come ministro degli interni, la premier si è dichiarata pronta a fare sul serio (enough is enough: evidentemente finora scherzavamo), liberandosi della zavorra delle clausole in materia di diritti umani – peraltro già sistematicamente espunte da ogni discorso di Donald Trump.

Di più, ha evidenziato l’esistenza di una ideologia in comune fra i diversi attacchi terroristici: una visione del mondo che va combattuta anche sul piano delle idee, là dove le idee si generano, si incontrano e si propagano: questo impegno, ha chiarito, partirà da una ulteriore stretta contro le manifestazioni di estremismo politico sulle piattaforme social e dunque su internet. È bene essere chiari su questo: esiste una ideologia jihadista, retaggio complesso di diverse trasmutazioni dell’islamismo politico e del salafismo in diversi contesti politici e sociali.

Il portato omofobo, misogino, antisemita, razzista e settario dell’ideologia salafita e wahabita non è condonabile dietro l’alibi del quietismo, ovvero l’idea che non sussista problema «a patto che lo professino a casa loro» – intendendo per «casa» ogni posto dominato de jure o de facto dall’interpretazione puritana della legge islamica (inclusi i quartieri europei di più o meno ghettizzati, di più o meno recente migrazione).

L’idea di reprimere le idee radicali, servendosi magari di leggi d’eccezione appoggiate al solo imperio del potere esecutivo, non solo è pericolosa per ogni democrazia fondata sul diritto ma è anche controproducente rispetto ai fini che dichiara di voler perseguire. L’idea di combattere l’estremismo dando supporto a non meglio specificate forme di moderatismo, quando non di conservatorismo, espone a clamorose contraddizioni. Fra queste, sul piano della politica estera, l’andare a combattere Daesh inseguendo una Presidenza Trump che si lega mani e piedi al regime saudita, inondando di armi il regime di Riad, da sessant’anni matrice dell’islamismo politicamente più retrivo, principale fornitore di foreign fighters sui fronti afghano e dello Stato Islamico, perno di instabilità regionali che vanno esacerbandosi – come mostra la recente crisi innescata dalla campagna di ostracismo verso il Qatar, sempre più spalleggiato da Erdogan.

Per combattere il terrore jihadista la democrazia ha bisogno di rafforzare e mobilitare la sua radice radicale: l’indebolimento di ogni istanza legata ad una dialettica di liberazione ed emancipazione, riflessa nella lunga crisi delle sinistre, non è piccola parte della soluzione, ma grande parte del problema, in Europa come in Medio Oriente.

Del ritorno a quella radice parlano le battute d’arresto delle agende della destra sovranista nelle elezioni europee, e dunque anche il fallimento della campagna di Theresa May e – sia pure non senza qualche ambivalenza – il ritorno sulla scena del Labour guidato decisamente da sinistra da Jeremy Corbyn.

I risultati di sedici anni di «guerra al terrore» sono che il terrore cambia forme ma è ormai ovunque, da Manchester a Melbourne: nonostante il perdurare dell’enfasi mediatica sui codici della paura e di proposte elettorali dominate da un’incontrollabile compulsione al controllo, i risultati elettorali in Europa iniziano a segnalare come sia sempre più avvertito il dovere di una disamina radicale delle ricette perseguite in questa triste stagione.