Ogni anno, per la cerimonia di laurea, è tradizione per le università americane selezionare uno studente che si è distinto per tenere il discorso di commiato. Alla USC di Los Angeles, l’onore di quest’anno è andato ad Asna Tabassum, figlia di immigrati musulmani dell’Asia meridionale, che si è laureata con lode in bioingegneria.

Lunedì, tuttavia, la direzione dell’università ha improvvisamente annunciato che il discorso non si sarebbe tenuto «nell’interesse della sicurezza del campus e degli studenti». L’e-mail del rettore ha parlato di minacce ricevute e, in una formulazione contorta, dell’«intensità dei sentimenti amplificati dai social media» la cui escalation avrebbe potuto provocare disordini e tensioni. La verità è che Tabassum, che è attiva nel volontariato sociale, intendeva parlare contro lo sterminio in atto a Gaza, una campagna sui social media l’aveva attaccata e minacciata, e l’università considerava il suo discorso «potenzialmente pericoloso». «Sono rattristata dal fatto che la mia stessa università abbia deciso di abbandonarmi», ha detto la studentessa, che oltre al suo corso di laurea, presso la prestigiosa università californiana aveva seguito un programma di studi sulla «resistenza al genocidio», sponsorizzato, ironia della sorte, dalla Shoah Foundation. A quanto pare, però, secondo l’università, la resistenza va fatta solo ai genocidi giusti.

Il caso di Tabassum è sintomatico della censura sempre maggiore del dissenso nei campus americani. Alla luce delle dilaganti proteste studentesche contro il massacro di Gaza, molte università stanno rivedendo radicalmente la tradizione della libertà di parola a favore di un’espressione “controllata” in nome del safe space. Secondo questa logica, le proteste contro il sionismo o l’etnostato israeliano, e la semplice solidarietà con i Palestinesi, costituiscono atti di antisemitismo e una minaccia al «senso di sicurezza» degli studenti ebrei o israeliani.

L’assioma è invocato a gran voce dalla destra, che è saldamente allineata con Israele, così come da una parte del Partito democratico, sempre più diviso invece sulla questione palestinese (per la prima volta, i sondaggi mostrano nella base del partito una maggioranza contraria alla guerra di Israele). L’opposizione segue in gran parte (anche se non esclusivamente) linee generazionali, con una grande componente giovanile sempre più distaccata dalla leadership, e il movimento è concentrato nelle università.

Oltre che dai politici, gli atenei sono sotto pressione da parte dei “donatori” e delle lobby pro-Israele. Il Congresso ha istituito una commissione parlamentare d’inchiesta sull’antisemitismo che ha convocato numerosi dirigenti universitari per rendere conto delle misure istituite per garantire uno «spazio sicuro» per gli studenti ebrei, cioè per limitare le manifestazioni e le espressioni di solidarietà con i palestinesi.

A dicembre le audizioni sono costate il posto alle direttrici di Harvard e U Penn. Ieri è stata la volta della presidente della Columbia University di New York, Minouche Safik, che è stata torchiata dai legislatori e criticata per non aver «combattuto a sufficienza l’antisemitismo» (cioè “contenuto” il dissenso). I dirigenti, desiderosi di evitare la sorte dei loro colleghi, hanno assicurato che «invocare il genocidio degli ebrei» contravviene ai regolamenti universitari. Secondo il “teorema antisemita”, il concetto è però esteso a molte espressioni collaterali, come «intifada» o «dal fiume al mare», che valgono automatiche accuse di filo-terrorismo e sostegno ad Hamas. Nel corso delle audizioni, molti studenti della Columbia hanno continuato il loro dissenso hanno continuato ad esprimerlo, mentre solo gli studenti filo-israeliani sono stati ammessi all’interno dell’aula. Intanto, nel campus di New York, da ieri è stato eretto un accampamento permanente di solidarietà con Gaza. Nel pomeriggio è intervenuta la polizia e ci sono stati molti arresti. In risposta centinaia di studenti si sono uniti alla protesta creando una cintura protettiva intorno alle tende.

Mentre continuano le accuse di “cancel culture” da destra, la repressione del dissenso sulla Palestina è insomma sempre più accettata, compresa la sospensione degli studenti o il rimprovero degli insegnanti che lo esprimono con le parole. Alla New York University, il mese scorso, è stata interrotta una lettura in cui è stata recitata l’ultima poesia di Refaat Alalreer, un poeta ucciso nella Striscia di Gaza poche settimane prima. Anche la sua invocazione ad essere ricordato è stata giudicata «aggressiva» nei confronti del corpo studentesco ebraico.

Contro l’equivalenza strumentale, due professori dell’università, Paula Chakravartty e Vasuki Nesia, hanno firmato un editoriale sul New York Times, denunciando l’atmosfera neo-maccartista che si è creata in molti campus per la semplice espressione di opinioni. A novembre, l’ACLU (American Civil Rights Union) ha denunciato «l’inaccettabile inibizione della libertà di espressione», proprio nei luoghi più preposti all’espressione delle idee.

In California, la scorsa settimana, gli amministratori del Pomona College hanno chiamato la polizia antisommossa per sgomberare un edificio occupato, arrestando 19 studenti e sospendendone sei. Pomona è una piccola ma prestigiosa università, a 70 km da Los Angeles (è stata frequentata, tra gli altri, da Frank Zappa, John Cage e Kris Kristofferson – più recentemente vi ha insegnato David Foster Wallace). «Dallo scorso semestre, abbiamo fatto tutto il possibile per convincere la scuola a ritirare gli investimenti da Israele», ha detto uno degli studenti arrestati al Los Angeles Times. «In risposta, l’amministrazione ha militarizzato il campus contro il corpo studentesco, in particolare gli studenti neri e ispanici».

Il dato è significativo perché la solidarietà palestinese è profondamente sentita nelle comunità ispaniche e afroamericane, particolarmente sensibili alle rivendicazioni anticoloniali del movimento. Molte delle parlamentari che si sono maggiormente espresse a favore della Palestina al Congresso appartengono anch’esse a queste comunità. Il fatto che queste siano componenti chiave della coalizione che storicamente ha sostenuto Biden sottolinea il rischio di una univoca politica filo-israeliana per il presidente in questo anno elettorale.

Da sinistra si moltiplicano gli avvertimenti a Biden sul rischio di perdere la parte più militante dell’elettorato. Tra le voci più insistenti in questo senso, quella di Michael Moore che ripete nel suo podcast che il continuo rifornimento di armi e denaro alla campagna di pulizia etnica in corso produrrà un’astensione di protesta tale da assicurare la vittoria di Donald Trump. Questo scenario è certamente plausibile, e sabato scorso si è tenuta a Chicago una riunione della March on DNC, un’ampia coalizione di attivisti progressisti che si prepara a coordinare le proteste in agosto, durante la convention democratica in quella città, sollevando lo spettro del 1968 quando la convention del partito, sempre a Chicago, fu dilaniata da rivolte contro la guerra in Vietnam che lo stesso partito tentò di sopprimere, e che furono preludio di una disastrosa sconfitta elettorale per i democratici.