«Tutti coloro che sono stati colpiti da un mandato di arresto della Corte penale internazionale compariranno davanti al Tribunale dell’Aia». È il succo di quanto annunciato ieri dal membro del Consiglio sovrano sudanese Mohamed Hassan al-Taishi, a nome del governo e a margine dei colloqui in corso a Juba, nel Sud Sudan, con le organizzazioni ribelli del Darfur. Non c’è stato bisogno neanche di citare Omar al Bashir che il nome e il volto semi-oscurato da fitte grate dell’ex presidente, deposto lo scorso aprile, erano già l’apertura di molti dei principali siti internazionali.

È la consegna della preda più pregiata che la Cpi possa vantare, proprio mentre la credibilità “africana” dell’organismo creato con lo Statuto di Roma nel 1998 è ai minimi storici. Due incriminazioni, nel 2009 e nel 2010, chiamano in causa al Bashir per crimini di guerra e genocidio in relazione al conflitto esploso nel 2003 in Darfur, che si è lasciato dietro 300 mila vittime, oltre 2,5 milioni di sfollati e una situazione pericolosamente sospesa, trascurata anche dalle star di Hollywood negli ultimi dieci anni. Malgrado fiammate di violenza come quella in cui sono morte 65 persone poco più di un mese fa, vittime in gran parte delle milizie arabe vicine al vecchio regime.

La decisione riguarda senza distinzioni «le cinque persone incriminate dalla Cpi», ha specificato il ministro dell’Informazione Faisal Saleh. Tra loro, oltre all’ex numero 1, ci sono quindi l’ex ministro di Interni e Difesa Abdelrahim Mohamed Hussein e un altro fedelissimo di al Bashir, Ahmed Haroun, capo della sicurezza e ultimo leader dell’ormai disciolto Partito del Congresso nazionale. L’impegno di Khartoum ad appianare la questione del Darfur emerge anche dalla richiesta di una nuova missione di pace sotto l’egida Onu, formalizzata dal premier Abdalla Hamdok e già salutata con gioia dai gruppi riuniti nel Sudanese Revolutionary Front, che sta portando in dirittura d’arrivo la trattativa a Juba.

 

Khartoum, 19 novembre 2019. Si festeggia il primo anniversario dell’inizio delle proteste che hanno portato alla caduta del regime di Omar al Bashir (Ap)

 

Procede anche così, a tappe forzate, il programma politico messo in atto dal governo di transizione – nato a fatica da un accordo tra l’esercito e l’ampio cartello di forze politiche e sociali che hanno sostenuto i lunghi mesi di mobilitazione prima contro il regime di al Bashir e poi contro la giunta militare che sperava, sacrificando il vecchio leader, di mantenere intatta la sua presa sul potere – per spezzare l’isolamento internazionale e ossigenare l’agonizzante economia nazionale. Con il ministro delle Finanze Ibrahim al Badawi che è tornato negli ultimi giorni a lamentare la perdurante ritrosia delle banche internazionali a trasferire somme di denaro in Sudan, malgrado l’allentamento delle sanzioni, la priorità resta quella di guadagnarsi il depennamento dalla lista Usa dei paesi “sponsor del terrore”. Una svolta promessa da Trump a precise condizioni. Un altro “ostacolo” è saltato ieri.

Altro punto chiave nell’agenda dettata dalla Casa bianca è la normalizzazione dei rapporti con un nemico storico come Israele. Ma se il recente incontro del generale al Burhan con Netanyahu era sembrato intempestivo ai più – a cominciare dal governo di cui al Burhan è parte e al parlamento -, la questione Darfur tocca altre corde. A maggior ragione dopo la strage di manifestanti avvenuta a Khartoum e in altre città del paese lo scorso 3 giugno, un massacro deliberato che ha riportato al centro della scena le milizie janjaweed, le stesse a cui sono imputati i massacri più efferati nel Darfur.

Al Bashir ha sempre negato ogni addebito e non ha mai riconosciuto la Cpi, considerandola una «corte politica». E come confermano i suoi legali, non ha cambiato idea oggi che sconta due anni di servizi sociali – la legge sudanese non prevede carcere per gli over 70 -, frutto di una prima condanna per corruzione. Il primo di una serie di conti che in seguito al regime change gli verranno presentati per i trent’anni in cui è stato al potere.