C’è un segreto dietro la Guardia costiera libica, che il governo italiano custodisce gelosamente. E’ in grado Tripoli di operare nei salvataggi in mare? Chi lo deve stabilire è il comando generale delle capitanerie di porto, alle dipendenze del ministro Danilo Toninelli. Un incarico arrivato nel 2017 direttamente da Bruxelles, dagli uffici della Direzione generale per gli affari interni e la migrazione, la Dg Home. Il progetto – finanziato con fondi comunitari – prevedeva diverse fasi.

La prima, completata lo scorso anno, riguardava la dichiarazione di un’area Sar (Search & Rescue, ricerca e salvataggio) di competenza libica, presentata all’Imo, l’organizzazione internazionale che si occupa dei trattati sul mare. Grazie alla consulenza italiana il governo di al-Serraj ha preso in mano il coordinamento dei salvataggi nel Mediterraneo centrale, tenendo fuori la Guardia costiera italiana – che sistematicamente passa la responsabilità ai libici -, mentre il ministro degli Interni Matteo Salvini sta creando le condizioni per la completa esclusione degli interventi umanitari.

Il cuore del progetto affidato all’Italia è però un altro. Gli ufficiali del comando generale delle Capitanerie di porto devono realizzare una valutazione complessiva delle capacità operative dei libici nelle operazioni di salvataggio, con la stesura di un rapporto specifico. Documento che il manifesto ha chiesto ufficialmente il 17 maggio scorso. Richiesta respinta con una comunicazione dai vertici della Guardia costiera italiana, che ha respinto l’accesso agli atti perché sottoposti a «classifica di riservatezza». In altre parole segretati.

Per negare la consultazione dei documenti il comando generale delle Capitanerie di porto richiama il terzo comma dell’articolo 5 bis della legge sull’accesso generalizzato agli atti (il cosiddetto Foia). E’ il riferimento esplicito al segreto di Stato o alle classifiche utilizzate dai servizi di sicurezza per le comunicazioni riservate.

Sapere se la Guardia costiera libica sia in grado di operare per salvare vite umane non è un dato secondario. Il governo italiano – che fino al 2018 era responsabile dell’area Sar libica – ha affidato la gestione della sicurezza della navigazione ad un corpo duramente accusato dalle Nazioni unite di avere rapporti diretti con le milizie, protagonista più volte di violazione dei diritti umani. Con la riduzione della presenza delle Organizzazioni non governative nelle acque davanti alla Libia – conseguenza immediata della politica di Matteo Salvini, sostenuta anche dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta e del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli – di fatto non esiste un controllo indipendente sull’operato dei libici. Quasi nulla sappiamo del funzionamento della Guardia costiera di Tripoli, che opera sostanzialmente un respingimento per conto dell’Italia.

Il progetto affidato al ministero delle Infrastrutture italiano prevedeva anche una valutazione del quadro giuridico libico, in relazione alle operazioni Sar. Un intervento di salvataggio, secondo il diritto internazionale, si conclude solo quando i naufraghi sbarcano in un «posto sicuro» (il Pos, place of safety), ovvero un luogo che garantisca uno status di sicurezza. Nel caso dei migranti questo non può essere la Libia, come hanno ribadito più volte le Nazioni unite, l’Unione europea e, in ultimo, il Consiglio d’Europa. Dunque la valutazione che l’Italia ha compiuto nell’ambito del progetto europeo era – ed è essenziale – per capire se Tripoli agisce in un quadro di legalità. Ma anche in questo caso sul dossier è calato il velo del segreto.