Quando, all’indomani della caduta di Saddam e mentre l’occupazione americana del Paese si trascinava da alcuni anni, accompagnata da una guerra civile scandita ogni giorno da nuove stragi, cercò di raccontare in un romanzo il volto dell’Iraq, lo scrittore e giornalista Ahmed Saadawi scelse di farlo prendendo a prestito uno dei miti più duraturi della letteratura mondiale, il «mostro» creato all’inizio dell’800 da Mary Shelley.

Nel suo Frankenstein a Baghdad (e/o, 2015), Saadawi, nato nel 1973 nel quartiere a maggioranza sciita di Sadr City, nella periferia della capitale irachena, metteva in scena le gesta dello straccivendolo Hadi Al Attag che raccoglie e cuce tra loro resti umani perché è convinto che attraverso un nuovo «corpo» potrà restituire la dignità alle vittime del terrore. E forse un profilo al suo Paese, dilaniato e diviso dall’odio. Non a caso, dal suo esperimento prenderà vita una creatura decisa a rendere giustizia alle molte vittime innocenti della guerra.

«Il mostro è un’incarnazione della nostra società. O meglio, di tutte le contraddizioni che vi albergano. – spiega l’autore – Nella versione originale il suo nome corrisponde alla parola Shisma, che in arabo significa “come si chiama”, una scelta con cui volevo sottolineare l’ambivalenza degli iracheni di fronte alle violenze, in particolare a quelle interconfessionali. Per questo in lui coabitano le vittime e gli assassini. Rappresenta il prodotto delle nostre paure, dei nostri pregiudizi e della nostra ipocrisia. È il simbolo di quel desiderio di vendetta presente in ciascuno di noi che alimenta una violenza senza fine».

A riprova di quanto il sentimento dominante tra gli autori locali sia la consapevolezza dell’annichilimento che la dittatura prima, l’occupazione poi e il terrorismo jihadista infine hanno imposto all’Iraq, anche lo scrittore, poeta, e regista, Hassan Blasim (Baghdad, 1973), ne la raccolta Il matto di piazza della Libertà (il Sirente, 2012) dà voce ad un’umanità lacerata con un linguaggio che si avvicina molto al pulp.

Se l’orizzonte è dominato dalla violenza e dalla follia, le macabre storie riunite nel libro allargano lo sguardo anche all’esperienza di quanti, spesso la maggioranza tra i protagonisti del mondo della cultura locale, sono stati costretti all’esilio già durante il regime baathista. Nel caso di Blasim, l’approdo è in Finlandia, dopo un itinerario attraverso un’Europa scossa dai rigurgiti xenofobi e dalla furia della bande neonaziste. Allo stesso modo, quella che Usama Al-Shahmani affida al romanzo In terra straniera gli alberi parlano arabo (Marcos y Marcos, 2021) è la sua storia di rifugiato che raggiunge la Svizzera durante la seconda guerra del Golfo continuando a sentirsi parte del destino del Paese che ha lasciato.

La perdita è il sentimento dominante di un romanzo nel quale l’autore cerca di ritrovare il fratello scomparso e di restituire in qualche modo un’identità ad una terra in frantumi. «Nel romanzo ho tentato di dare una tomba a mio fratello – sottolinea Al-Shahmani -: Ali è disperso, non è morto, c’è una grande differenza. Poi, c’è la perdita di un Paese con una ben nota identità storica e civile. Ho cercato di dare all’Iraq una narrativa appropriata che rappresentasse la sua esistenza, ho utilizzato immagini della guerra e della dittatura che raccontano quello che abbiamo vissuto io e milioni di iracheni e ciò che ha portato milioni di noi alla dispersione nel mondo».

Infine, esemplare da questo punto di vista, appare la vicenda di Jabbar Yassin Hussin, considerato il più grande narratore iracheno vivente. Costretto a lasciare Baghdad alla volta di Parigi già nel 1976, Yassin Hussin è tornato nella sua città natale dopo 27 anni di esilio, nel 2003. Di quel ritorno a lungo atteso, l’autore ha offerto una cronaca struggente in Nel mio paese d’argilla (Poiesis, 2013, prefazione di Edgar Morin) dove l’emozione per poter finalmente ritrovare i luoghi dell’infanzia, e dei sentimenti, si intreccia con l’orrore che domina la città come l’intero Iraq.