Cosa grida la folla alle fuorilegge? Non grida «assassina», «ladra» o «terrorista» ma «puttana», «fatti stuprare», «dalla all’uomo nero». Lo abbiamo visto sulle banchine del porto di Lampedusa. Si tratta di un’ignominia antica che sopravvive e riemerge in tutte le epoche. L’idea di «Le fuorilegge» è di tentarne una piccola archeologia attraverso alcuni ritratti cinematografici, prendendo casi diversi come la parricida Violette Noizière, la rivoluzionaria Angela Davis, le domestiche Papin, la folle Ida Dalser, la comunarda Louise Michel… Si tratta da un lato di vedere come e in che misura l’essere non sottomesse all’autorità maschile è il capo d’accusa di fondo di tutti questi casi celebri. E quindi di come le fuorilegge sono in ultima analisi fuori norma. E da un altro lato di vedere come intorno a questo crimine si crea rapidamente un delirio di desideri contrapposti, dai quali emergono dei ritratti che si accumulano come maschere sui personaggi effettivamente esistiti; e come il cinema, pur reinventandole, usa queste donne come vettori per accedere ad uno stato del mondo.

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È il 16 febbraio del 2019, le strade di Algeri sono stracolme di manifestanti che chiedono le dimissioni del presidente algerino Abdelaziz Bouteflika e la nascita di una seconda repubblica. Tra di loro, c’è una donna di 83 anni che pure aveva largamente contribuito alla fondazione della prima, nel 1962. Djamila Bouhired nasce nel 1935 da una famiglia della classe media. Ha dieci anni il giorno della capitolazione della Germania, quando militari e coloni francesi massacrano migliaia di dimostranti algerini a Sétif, a Guelma, a Kherrata.

Studia in un liceo francese. Si politicizza, entra a far parte del Fronte di Liberazione Nazionale, diventa il braccio destro di Yacef Saadi, capo della struttura militare clandestina dell’FLN nella capitale. Con lui, recruta e forma il gruppo di fuoco tutto femminile responsabile tra l’altro degli attentati dinamitardi del café Coq Hardi e alla via Colonna-D’Ornano. Lei stessa piazza un ordigno, che non esplode solo per l’imperizia dell’artificiere che lo ha preparato. Ferita per errore dallo stesso Saadi durante uno scontro a fuoco, è arrestata e condotta in un ospedale militare dove viene immediatamente torturata ma non rivela alcuna informazione di rilievo.

È giudicata e condannata a morte nel 1958. In seguito a una campagna internazionale di solidarietà, la condanna è mutata in lavori forzati a vita. È graziata nel 1962. Dopo la vittoria, lavora alla rivista «Rivoluzione africana». Non chiede nessuna posizione politica, non concede interviste. In un raro documento televisivo, raccontando il sentimento del condannato a morte, dice: «L’angoscia era grande. C’era anche paura. Ma l’accettavamo, perché sapevamo per quale ragione eravamo lì».

QUALE FORZA riesce a piallare una coscienza al punto da farne un’arma così appuntita e resistente, capace di tener duro nonostante l’alterna fortuna, di rimanere degna davanti ai propri torturatori, eppure modesta rispetto al proprio ruolo? Il cineasta che con sincerità prova a confrontarsi con questo problema non ha molte strade: spiegare, tentando una genealogia del proprio personaggio, accumulando ragioni, motivi, episodi più o meno significativi. Oppure tacere, osservarlo da lontano, tenere intatto il mistero della donna d’azione che si è trascesa nel tutto, pur rimanendo se stessa. Youssef Chahine ha trent’anni quando gira Djamila l’Algérienne, nel 1958, l’anno della condanna.

E sceglie di spiegare. Il film è diviso in due parti. Nella prima, una voce fuori campo racconta in parallelo la storia recente dell’Algeria e quella della giovane Djamila, come fossero una cosa sola. Tutta la prima parte, che si conclude con l’arresto, snoda il bandolo della politicizzazione di Djamila, mettendo dei segnavia sul cammino di questa donna bella, colta, solare, che rinuncia ad una vita normale e prende le armi contro la Francia. Il tono è enfatico, il contenuto è politico. Ma il film somiglia più a un melodramma che ad un manifesto.

Non senza ironia, Chahine gioca con i codici estetici del classicismo hollywoodiano, e in paticolare con Casablanca in cui, lo si ricorderà, la Marsigliese era il canto della resistenza, mentre qui simboleggia l’occupazione. Il personaggio storico di Djamila è così esaltato ma anche oscurato da un velo romanzesco, distante anni luce dalla grazia, dal rigore, dallo stile durassiano che le poche, già evocate, immagini della vera Djamila Bouhired fanno invece apparire.
Nella seconda parte di Djamila l’Algérienne, Chahine filma numerose scene di tortura, di sevizie e di stupro. Dalle prigioni francesi, il personaggio di Djamila emerge totalmente stravolto. Con i capelli corti e la casacca da prigioniera, quella che Chahine manda sul banco degli imputati non è altro che la Giovanna d’Arco di Dreyer. Come nel caso della Marsigliese, si tratta di ritorcere contro il nemico i simboli che gli sono più cari. Ma Djamila, vittima collaterale, è ancora una volta sepolta sotto un’icona. Difficile volerne a Chahine, che se da un lato incede nel sentimentalismo, dall’altro mette la sua eroina al centro di un dramma che si poneva come obiettivo concreto e imminente di muovere l’opinione internazionale in favore della condannata a morte; e che riesce anche a denunciare con coraggio i crimini contro l’umanità commessi dall’esercito francese.

IL PERSONAGGIO di Djamila riemerge dieci anni dopo da uno schermo totalmente diverso. La battaglia di Algeri è una cronaca serrata d’un segmento circoscritto della guerra. È soprattutto un film di uomini – forse andrebbe detto di «maschi». A Gillo Pontecorvo e Franco Solinas fu rimproverato da un lato di aver fatto un film pro-terrorista. E dall’altro di ritratto il colonnello Mathieu (ovvero del colonnello Bigeard) come un uomo colto ed elegante. I due si difesero dicendo semplicemente: abbiamo raccontato la realtà così com’era. Ma quello che stupisce guardandolo oggi è che, nella Battaglia di Algeri, i maschi, siano paracadutisti, politici francesi o dirigenti dell’FNL, hanno tutti l’occasione di verbalizzare il proprio pensiero.

Mentre le tre donne che Pontecorvo mette in scena, tra le quali si riconosce Djamila Bouaziz, Zohra Drif e ovviamente Djamila Bouhired, oltre ad avere una parte relativamente breve, sono solo mute esecutrici degli ordini di Djafar (Yosef Saadi, che recita se stesso). Così, se ad un primo sguardo i personaggi messi in scena da Chahine e da Pontecorvo sembrano assai diversi – l’uno sentimentale e romantico, l’altro freddo e determinato, a ben vedere entrambi riposano sullo stesso imbarazzo che consiste nell’ opporre senza sintesi la donna in particolare e la rivoluzionaria in generale.

BISOGNA aspettare il 2006 e L’avvocato del terrore di Barbet Schroeder per trovare una rottura di paradigma. L’espressione «rottura» è dell’avvocato Jacques Vergès che inventò, proprio difendendo Djamila il «procès de rupture». Ovvero un processo in cui l’imputato ribalta il proprio ruolo, mettendo sotto accusa il tribunale che lo vorrebbe processare. È vero che il film non ha per oggetto Djamila ma il suo difensore. Ma il ritratto che questi fa della propria cliente è forse uno dei più efficaci che sia stato fatto di una militante rivoluzionaria.

VERGÈS è abilissimo ad evocarne la figura, e a mostrare come Djamila seppe erigersi moralmente in ogni occasione al di sopra dei propri accusatori: «Voi non sapete nulla di me, ma sappiate che se mi arrivasse l’ordine di mettere una bomba, lo farei». Fino alla fine, quando, alla lettura della sentenza seppellì il tribunale che la condannava a morte con una risata. Ma il culmine del ritratto non è nel tanto nel racconto quanto nella persona stessa del narratore, e di come l’incontro con questa donna lo abbia stravolto, rompendone le certezze. Molto acutamente il giornalista Lionel Duroy nota: «questo avvocato tutto d’un pezzo, che apostrofava spavaldo magistrati e colleghi, incontrando Djamila, la quale esce dal letto dove è stata torturata, cede, piange, è sconvolto… Non so se è di Djamila che si innamora. Oppure se è del suo eroismo. Di certo si innamora di una donna che lo sconvolge».

ALLA FINE, anche nel film di Barbet Schroeder ritroviamo il melodramma, il sentimento, l’amore. Ma in questo caso l’elemento umano non esclude la negazione di sé della persona che si è trascesa nell’azione, anzi la rende più viva e più concreta. E quest’immagine fortissima di Djamila L’avvocato del terrore ce la può offrire solo al prezzo d’una rinuncia. Vediamo Djamila con lo stratagemma di Perseo, attraverso l’effetto che ha, ancora oggi, su quelli che l’hanno vista. Come se la sua terribile bellezza ci fosse accessibile solo per riflesso.

2.continua