Il suo merito migliore è che per una settimana non si è parlato di Matteo Salvini. Il festival di Sanremo ha il potere taumaturgico di far mettere da parte le cattive notizie e così anche se il mondo brucia, si ribella, si ammazza, si ammala, si suicida ambientalmente parlando, un pezzo d’Italia guarda e commenta il festival. Non tutti gli italiani per la verità hanno seguito la appena terminata edizione, ma comunque sono stati quasi 11 milioni su 60, circa il 18% della popolazione, una percentuale che molti partiti si sognano. Secondo l’analisi di Publicis Media Group l’ascolto dell’ultima serata ha ottenuto uno share del 64,5%, il più alto dal 2002 quando a condurlo fu Pippo Baudo. L’edizione di quest’anno è l’unica, negli ultimi vent’anni, ad aver superato la media del 55% di share.

Facebook ha registrato 78mila nuovi fan del festival con picchi di un milione di interazioni sulla pagina ufficiale, ovvero il 46% in più del 2019. La crescita di ascolti è stata trasversale su tutte le fasce di età e Achille Lauro è il cantante che ha registrato più nuovi fan su Facebook e Instagram.
I numeri confermano la sensazione che ovunque, sui mezzi, nei bar, a casa, sui social, in famiglia, fra amici, si parlasse di Sanremo. A Milano Piero Bassetti, il primo presidente della Regione Lombardia fra il 1970 e il ‘74, ha organizzato una serata vip top alla quale ha invitato accademici, musicisti, intellettuali, giornalisti a vedere e commentare dal vivo il festival che, secondo lui, è la nostra più autentica manifestazione di attaccamento alla penisola, più sentita e celebrata della festa della Repubblica del 2 giugno.

Se fosse vero, vorrebbe dire che possono più le canzoni che la storia, o forse che siamo irrimediabilmente più legati allo show che alla politica, oppure che, e credo che questa sia l’opzione più gettonabile, ci rifugiamo per cinque sere in una gara di canzoni proprio per non pensare al mondo che si ribella, si ammazza, si ammala, si suicida ambientalmente parlando. Insomma, Sanremo è il più potente ed efficace Prozac del Paese, ma senza effetti collaterali. È un minestrone pop che permette di andare a dormire esausti e senza cattivi pensieri perché il peggio che può succedere è litigare perché uno preferisce una canzone piuttosto che un’altra.
Se si guarda a Sanremo come indicatore sociale, impressiona constatare che il periodo in cui fu meno seguito fu quello fra la fine degli anni Sessanta e per tutti i Settanta, ovvero un’epoca in cui in Italia bruciava un fortissimo desiderio di cambiamento radicale.

Insomma, c’era altro a cui pensare, altro da desiderare e tentare, altra musica da ascoltare. Poi arrivò il riflusso e, anno dopo anno, il festival si è ripreso la scena che non è fatta solo dalla gara musicale, ma da un insieme di componenti fra cui il guardonismo, il gusto per il pettegolezzo e per il giudizio. Ah, come ci piace dire la nostra su tutto, le performance dei cantanti, gli ospiti, gli abiti di questo e di quello, le gaffe, i monologhi più o meno ammorbanti, i siparietti, la simpatia, l’antipatia, la bellezza, la bruttezza, i rari colpi di scena. È come se Sanremo tirasse fuori la portinaia che è in noi, e con ciò penso non alle meritevoli portinaie che governano le parti comuni dei condomini, ma a quelle di balzachiana memoria che tutto controllano, vedono, riportano e commentano. Sanremo è uno specchio dell’italica commedia umana, ci dice chi siamo e dove andiamo. Per ora stiamo sul divano, un occhio alla tivù e un altro al cellulare, a consolarci con qualche canzone e molte chiacchiere. Finché uno tsunami non ci travolgerà.