Le strofe iniziali della canzone Il disertore di Boris Vian, nella versione italiana di Giorgio Calabrese recitano così: «In piena facoltà egregio presidente, le scrivo la presente che spero leggerà, la cartolina qui mi dice terra terra, di andare a far la guerra quest’altro lunedì. Ma io non sono qui egregio presidente, per ammazzar la gente più o meno come me, io non ce l’ho con lei sia detto per inciso, ma sento che ho deciso e che diserterò». Nessun romanticismo, beninteso. Semmai qualche quesito di fondo. C’è un altrove verso il quale andare quando la realtà di ogni giorno si fa insopportabile?

Esiste, in tale caso, un orizzonte morale, e di condotta, che non sia riconducibile alle tragiche retoriche del martirio, alla triste ovvietà del solo sacrificio corporale di sé, ovvero alla sua nullificazione? In altre parole ancora, in «anni neri» (così come li definiva Romano Bilenchi), sussisteva ancora una qualche forma di impegno che riuscisse a tradurre in atti concreti la necessità individuale di rifiutare l’ingiustizia, traducendola nella costruzione di una nuova legittimità? Non di meno, ed è forse la domanda più importante in tempo di guerra, la pace a venire è prefigurata solo dall’astensione individuale dal ricorso alla violenza insensata oppure richiama anche all’uso delle armi, sia pure capovolte rispetto al loro impiego coercitivo?

L’IMMAGINE CORRENTE della diserzione, nel migliore dei casi, è quella dell’abbandono di un’esperienza di insensatezza. Se per certuni è sinonimo di tradimento, per altri è soprattutto il disperato esercizio esistenziale con il quale si rompono le righe imposte da un’autorità i cui atti hanno perso, ai propri occhi, qualsiasi residua liceità. Poiché chi diserta a favore dell’altro fronte, il più delle volte, non cerca solo di preservare la sua vita ma – soprattutto – di dare ad essa un senso che, altrimenti, non trova più nel gruppo di origine e appartenenza. Anzi, che proprio da quest’ultimo ritiene in via di distruzione.

C’è un principio che va riaffermato in ogni discussione sul significato della lotta di Liberazione in Italia ed in Europa, senza il quale altrimenti nulla delle fratture che hanno attraversato allora il nostro Continente risulterebbe ancora comprensibile ai giorni nostri. Si tratta della premessa per la quale il progetto politico nazifascista era basato sulla distruzione della varietà e del pluralismo delle vite. Era un rullo incessante rivolto all’omologazione, attraverso l’applicazione bellica del paradigma razzista. Mentre le molteplici opposizioni ad esso, trovavano un punto di sintesi nella volontà di preservare il diritto alla differenza. Il disertore, nel momento della sua massima disubbidienza ribadisce, a proprio rischio, la necessità di tutelare l’umanità che ancora è presente in lui. La diserzione da una guerra ingiusta (e da un esercito che mette in atto condotte deliberatamente criminali) è quindi un atto etico prima ancora che politico. Anche per questo non implica solo la fuga ma l’eventuale ricorso all’opposizione armata.

LO STORICO E STUDIOSO torinese Carlo Greppi, con il suo Il buon tedesco (Laterza, pp. 280, euro 18), riprende il campo della riflessione sulla diserzione tedesca ed austriaca durante la guerra di Liberazione, attraverso un testo polifonico, connotato da una scrittura densamente personale e da una ricerca documentale basata essenzialmente sulle tracce residue offerte, a distanza di molto tempo, dal territorio nostrano. Si tratta perlopiù di frammenti da ricomporre, tessere disordinate di un mosaico che, altrimenti, rischia di essere definitivamente sottratto a qualsiasi restante memoria.

La ricostruzione della traiettoria del capitano Rudolf Jacobs, e del suo attendente, dallo stato di servizio inappuntabile, transitati dall’esercito germanico alle Brigate Garibaldi, diventa così la premessa per costruire l’intelaiatura concettuale attraverso la quale identificare ed interpretare una storia non solo nascosta ma spesso volutamente dimenticata, quella dei soldati di lingua tedesca che dissero no alla loro stessa parte, per scegliere quindi la Resistenza italiana. Facilmente liquidati dall’opinione pubblica del loro paese, anche dopo la fine della guerra, quindi sospesi tra oblio, rimozione, sconfessione e irrilevanza, erano invece l’architrave di una scelta tanto difficile quanto preziosa, quella compiuta da uomini che in tempi di amoralità collettiva si erano invece posti quesiti profondi poiché vitali. Con gli strumenti e i mezzi che l’epoca consegnava loro.

Il richiamo al «buon tedesco» del titolo è duplice, poiché non conta solo l’indagine sulle motivazioni, spesso eterogenee, della diserzione tedesca dalle proprie file ma anche la ricezione che già allora gli italiani ne andavano facendo, quando si trovavano di fronte ad un atto altrui apparentemente senza prospettiva, quello di abbandonare i ranghi di una macchina da guerra la cui forza sembrava essere inesorabile. La diserzione e la contrapposizione ai propri ex camerati segnavano infatti la rottura di ogni confine di falsa legalità, quella che faceva altrimenti coincidere il consenso passivo dei tanti con la volontà di un potere criminale e criminogeno. Un’opzione non contemplata dal giudizio dei tanti e, proprio come tale, tanto più importante.

Molto spesso, a volere dare credito ai riscontri frammentari che si hanno delle diserzioni di tedeschi dal proprio esercito, si trattava di un atto individuale. Plausibilmente maturato nel corso del tempo, quasi a volere ristabilire un accordo tra la propria coscienza e le concrete condotte di vita. I rischi erano peraltro tanto evidenti, ed immediati, quanto tali da rendere estremamente impervia una tale scelta. Anche per queste ragioni Carlo Greppi dà sostanza ad un’indagine sul buon uso del legittimo tradimento.

IL CAMPO D’AZIONE è l’intera penisola italiana, in quello tragico spicchio di tempo che va dall’autunno del 1943 alla primavera del 1945. L’obiettivo, oltre ad una ricostruzione storica, è il confronto tra ciò che resta di un passato poco narrato e la capacità di renderlo materia attuale di riflessione. Poiché alla radice dell’esperienza di quelle centinaia di transfughi c’è la condizione, in questo caso pienamente consapevole, dell’apolidia politica. Varcare la soglia della diserzione era un atto pieno di conseguenze, destinato come tale a prestarsi a fraintendimenti, equivoci, incomprensioni ma anche rigetti e ripudi. Poiché in questo caso si era apolidi, «senza patria e bandiera», non perché espulsi da qualcuno bensì per libera scelta. Profughi di se stessi e rifugiati nella propria coscienza. Un esercizio di piena autonomia, contro il quale molte autorità, non solo quella tedesca, avrebbero potuto scagliarsi. Durante ma anche eventualmente dopo la guerra.

PROPRIO PER QUESTA INTIMA ragione, quindi, la rilevanza di una tale scelta derivava dall’inscriversi a pieno titolo dentro la dimensione aurorale che la Resistenza si era data, quella di una rigenerazione integrale delle categorie della legittimità politica e civile. Rivelando l’estesa partecipazione ad un progetto di liberazione nazionale di un grande numero di uomini e donne delle più diverse origini. Fin qui gli elementi di quadro del volume. Nella scrittura di Greppi c’è tuttavia anche, in un gioco di riflessi, il dato autobiografico della più recente generazione di studiosi e ricercatori che, in un’età di profonde disillusioni politiche e di disaffezione dall’impegno pubblico, tentano di ritessere una trama di significati condivisi. Il fare storia non è allora solo un modo per raccontare ma anche, e a volte soprattutto, un criterio per iniziare a raccontarsi. L’urgenza di rispondere al populismo storiografico, alla decadenza della capacità di un giudizio critico, agli stucchevoli revisionismi che coltivano il gusto della rivalsa, fa tutt’uno con il bisogno di intravedere nel proprio lavoro di scavo le radici di una nuova coscienza civile. Come diceva Amleto: «Ben detto, vecchia talpa. Come fai a lavorare sottoterra così svelto? Che degno minatore».