L’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti. In Italia la tortura non è ancora reato, forse lo diventerà. È un tema ancora tabù e la difficoltà di chiamare alla responsabilità le forze dell’ordine lo dimostra. Negli ultimi quattro anni la procura di Torino avrebbe inquisito quasi mille manifestanti per violenze nelle proteste contro la Torino-Lione, 200 sono state le condanne. I processi ai No Tav hanno avuto una corsia preferenziale e sono stati istruiti da un pool specializzato di magistrati. Altri reati non sono stati perseguiti con la stessa abnegazione. Si tratta delle querele per violenze da parte della polizia nei confronti di manifestanti. Tutte archiviate. Ne parla un documentario che si intitola, appunto, «Archiviato», promosso, tra gli altri, da Antigone, Giuristi democratici e Controsservatorio Valsusa. Il film è stato presentato in anteprima a Torino, alla proiezione ha partecipato anche Enrico Zucca, attuale Sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Genova. Zucca è stato il pm che ha seguito i processi scaturiti dai fatti della scuola Diaz durante il G8 di Genova nel 2001, quando si trovò di fronte a un muro costruito dalla polizia per impedirgli di identificare le persone appartenenti alle varie forze dell’ordine che, in ipotesi, si erano rese responsabili di abusi.

Dottor Zucca, pensa che ci sia una specificità torinese nel condurre indagini relative alle violenze delle forze dell’ordine ai danni di manifestanti No Tav?

Non credo, rilevo invece analogie con l’approccio inadeguato e generale della magistratura inquirente rispetto alle violazioni dell’articolo 3 della Cedu. Un atteggiamento di sottovalutazione e riluttanza, non conforme ai canoni della Corte europea che impone agli inquirenti un impegno straordinario nelle indagini e che ammonisce di non accontentarsi delle versioni ufficiali. Il ricorso all’uso della forza è autorizzato se giustificato e proporzionato, però nessuno può dubitare che infierire su una persona ridotta a impotenza sia qualcosa di inaccettabile. Molte immagini del documentario testimoniano purtroppo proprio questo, come al G8. Troppo spesso giudici e pm cercano improbabili giustificazioni, utilizzando criteri di giudizio più benevoli rispetto a quelli ordinari.

Quali le radici di questo problema?

Mai come in questo periodo la mancata incriminazione dei poliziotti induce nell’opinione pubblica la sensazione della violazione del principio di uguaglianza. Guardiamo gli Stati Uniti. Pochissimi sono i casi in cui i procuratori esercitano l’azione penale. È difficile raggiungere una prova. Per molte ragioni. Non giuridiche. Processare un poliziotto, ovvero colui che è deputato alla nostra sicurezza, da un lato porta a meccanismi di immedesimazione, perché lo fa per noi, dall’altro può mettere in discussione l’integrità del sistema, scatenando un meccanismo di difesa dello stesso. Il poliziotto si aspetta a sua volta protezione dal sistema, scatta quella concezione sottile e pericolosa che lo porta a credere di far bene il proprio lavoro nell’interesse della società assicurando il fine a qualunque costo: si tratta della cosiddetta «corruzione per la nobile causa». Non si accetta che il poliziotto deve sì combattere il crimine, ma rispettando le regole.

Esiste una specificità italiana?

Nella contingenza politica attuale v’è una esasperata logica dello schieramento, pro o contro la polizia, nonostante la Diaz, Bolzaneto o le sentenze di Strasburgo. Occorrerebbe riflettere che, anche qui, più che altrove, si afferma la tendenza a mandare le forze dell’ordine a risolvere conflitti o situazioni che non possono essere risolti con l’autorità della forza, ma con l’autorevolezza. Invece di chiedersi cosa ha fatto la polizia, bisognerebbe domandarsi chi l’ha mandata lì? Perché la tensione è cresciuta invece che essere raffreddata. È un problema politico. Certo, può arrivare il momento in cui è necessario l’uso della forza, ma allora la polizia deve usare il potere che ha secondo le regole del diritto, che sono quelle della proporzionalità.

Spesso vengono assegnate le indagini allo stesso corpo che ha membri sotto inchiesta. Perché?

È una violazione delle indicazioni della Corte Edu. Così l’indagine non può essere indipendente, neppure se c’è il pubblico ministero a dirigerla. È ciò che ha già detto la Corte proprio all’Italia. Penso sia giunto il momento di interrogarsi seriamente e riconoscere un problema di conflitto d’interessi. Dovremmo creare gruppi specializzati che abbiano più distacco e quindi più indipendenza concreta. Non consentire che gli stessi pm indaghino contemporaneamente su manifestanti e poliziotti. E non si può concludere un’indagine per non essere riusciti a identificare gli agenti di un reparto, non si tratta di bande paramilitari. La sentenza Cestaro è molto dura su quest’aspetto, non ci possono essere ignoti tra le forze di polizia. La magistratura dovrebbe dare segnali di fermezza, non di rassegnazione compiacente, così da rendere effettivo il principio di legalità.