Un mago, uno sciamano, poteva fare di tutto, un’alleanza tra classe e forza che dava agli spettatori la sensazione del sovrumano. Ma solo in campo. Era Diego Armando Maradona (1960-2020). Ma non è stato certo questo a renderlo il più letterario dei calciatori, a sottrarlo al destino di cortigiani di qualche emiro, commentatori tv, testimonial pubblicitari, collezionisti di orologi costosi e fidanzati di veline, che ha risucchiato altri nomi altisonanti del football.

LA SUA FACCIA, già mentre giocava a pallone, era stata dipinta o stampata su centinaia di muri e milioni di magliette. A Napoli era parte dell’arredo urbano, come le edicole votive nei Quartieri spagnoli, già prima di arrivare in città per riscattare dalla mediocrità la squadra locale. Ma il suo mito si sarebbe costruito senza soste, col suo nome a intitolare uno stadio ma pure un centro sociale, quando già era un viale del tramonto vivente, rifugiato a Cuba, ospite di Fidel Castro, o in qualche ospedale, mentre il web nel suo eterno presente ce lo restituisce incessantemente con lo sguardo di mille istantanee in campo: felice per il passato, nostalgico per il futuro.

La prima volta che due romanzieri hanno parlato di lui era appena maggiorenne, era il 1979, quando Osvaldo Soriano, esule a Parigi, scriveva al torinista Giovanni Arpino del talento di una giovane stella che stava nascendo in un piccolo club di Buenos Aires: «il più grande giocatore (anche se è basso di statura) degli ultimi 30 anni. Fa due gol a partita (la sua è una squadra misera ma sono primi) e fa già parte della selezione nazionale… Se il Torino ha quei soldi è salvo… Poi non dite che non vi avevo avvertito. Un abbraccio grande».

QUANDO A DANIEL PENNAC è stato chiesto perché avesse deciso di girare un documentario su Maradona, il papà di Malaussene ha risposto che voleva capire la commozione di tanti suoi amici alla notizia della sua morte. Una molla che probabilmente ha mosso sulla tastiera anche le dita di Loris Caruso, autore del romanzo In campo la vita sparisce (Castelvecchi, pp. 432, euro 24).

Caruso (le definizioni in corsivo sono tratte da libro), da sociologo è incuriosito dai movimenti sociali, dalla teoria politica e dai conflitti di lavoro. Immediatamente prima di questo romanzo ha pubblicato in rapida successione altri due titoli, una ricerca su Podemos (a quattro mani con Francesco Campolongo) e un romanzo dall’inafferrabile catalogazione su Rimbaud.

SCRIVERE DI MARADONA non è un dribbling fra una ricerca e un’altra ma è il proseguimento dell’una e dell’altra pista, il loro intrecciarsi alla perfezione del fútbol di Diego e una fame di vita che avrà la peggio nell’impatto con la macchina della mercificazione dell’arte che pure lo aveva strappato dalla miseria.

Genio e inadeguatezza, Maradona è una di quelle figure che per immaginarle si deve pescare – ed è proprio quello che fa Caruso – nei magazzini della mitologia di questa e dell’altra riva dell’Atlantico: Prometeo, Agamennone, Re Lear, gli dei del popolo Tupa intercalati a descrizioni calcistiche degne di Mura o di Brera con una scrittura geometrica che alterna sintesi fulminee e dettagli precisi.

Non fu solo un calciatore ma un poeta maledetto come Andrea Pazienza, o proprio come il Rimbaud così caro all’autore. Capace di capeggiare un corteo contro la visita di Bush in Argentina ma anche di frequentare una famiglia camorrista. «Una specie di Dio sporco, il più umano degli dei – ha scritto di lui Galeano -, un Dio sporco che ci assomiglia: donnaiolo, chiacchierone, ubriacone, divoratore, irresponsabile, bugiardo, fanfarone».