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Il «pirata» Santoso: il primo che giurò fedeltà al Califfo

Il «pirata» Santoso: il primo che giurò fedeltà al CaliffoIl «pirata» Santoso: il primo che giurò fedeltà al Califfo

Indonesia Vive nascosto nelle foreste di Poso: da una rissa, a leader. Fondatore del Mujahiddin Indonesia Timur, confinato sulle montagne di Sulawesi con 50 compagni è diventato il punto di riferimento dei jihadisti di tutta l’area

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 8 giugno 2016

Si chiama Santoso, vive nascosto nelle foreste di Poso, ed è l’obiettivo principale dell’Operazione Tinombala. Se l’inizio di questa storia vi sembra buffo, bene; mantenete il sorriso e continuate a leggere: state per conoscere il jihadista più ricercato di tutta l’Indonesia. «Il gruppo terroristico guidato da Santoso, l’Mit (Mujahiddin Indonesia Timur, o East Indonesia Mujahiddin), è minuscolo e rimane isolato nella zona di Poso, ma simbolicamente è molto importante, perché tutti gli altri estremisti lo ritengono l’unico gruppo che sia stato capace per anni di mantenere viva l’idea del jihad nella regione», racconta Sidney Jones.

Americana, studi di arabo in Tunisia e al Cairo, una lunga esperienza in Human Rights Watch e Amnesty, Jones dirige da anni Ipac (Institute for Policy Analysis of Conflict), il più autorevole think-tank sulla sicurezza nel Sudest asiatico, con sede a Jakarta. Per comprendere come un guerrigliero confinato sulle montagne di Sulawesi con una cinquantina di compagni sia diventato il punto di riferimento dei jihadisti di tutta l’area bisogna andare indietro nel tempo di oltre quindici anni, rievocando gli eventi che hanno condotto gli scontri etnici e religiosi locali a saldarsi con il terrorismo islamista internazionale.

Dicembre 1998: sono passati cinque mesi da quando un’organizzazione chiamata al-Qaeda ha ucciso oltre 200 persone facendo esplodere due camion bomba davanti alle ambasciate Usa in Tanzania e Kenya, ma per i due gruppi contrapposti di ragazzi protestanti e musulmani che si stanno picchiando a sangue fuori da un baretto di Poso difficilmente i nomi di Osama Bin Laden e Ayman al-Zawahiri significano qualcosa.

Anche qui sulla costa di Sulawesi, la meno rilevante tra le Grandi Isole della Sonda, i locali guardano alla caduta del dittatore Suharto avvenuta nel maggio precedente come all’evento che determinerà il futuro delle prossime generazioni. Da decenni, a Poso, i protestanti discendenti dei convertiti delle missioni olandesi si sentono svantaggiati rispetto agli imprenditori islamici del cacao e la campagna elettorale per le prime elezioni locali dopo il crollo della dittatura ha infiammato gli animi accentuando le differenze religiose. Tutto converge verso questa maxi-rissa.

Nessuno, tantomeno i ragazzotti ubriachi coinvolti, può immaginare di avere appena scatenato una sequenza di ritorsioni e vendette incrociate che tra accuse reciproche di magia nera, agguati e incendi di chiese, moschee e abitazioni raderà al suolo il tessuto sociale della cittadina di Poso, provocando circa mille vittime nel giro di un anno. La situazione sembra placarsi per quasi tre anni, ma riesplode con la comparsa sulla scena di due gruppi paramilitari, Laskar Jihad e Christian Red Force: ormai siamo nel novembre 2001 e la presidentessa indonesiana Megawati Sukarnoputri si trova a camminare su un filo sottilissimo, nell’angosciosa posizione di leader della nazione musulmana più popolosa e moderata del mondo che allo stesso tempo sostiene la War on Terror post-11 settembre e condanna l’attacco all’Afghanistan.

Nel frattempo, dopo la caduta di Suharto, i leader di un’organizzazione radicale chiamata Jemaah Islamiyah che punta a instaurare un Califfato regionale in tutto il Sudest asiatico sono rientrati in Indonesia e uno di loro, Abdullah Sungkar, ha stabilito profondi contatti con Osama Bin Laden. Jemaah Islamiyah vuole accreditarsi come il federatore di tutti i musulmani radicali in lotta contro il corrotto governo secolare di Jakarta. Gli interessi convergono. Gli scontri locali di Poso si possono sfruttare come bandiera transnazionale. Il sipario cala. La scena è pronta. Adesso tutti i riflettori sono puntati su Santoso. Ogni guerra si alimenta di leggende, spesso gli scontri si combattono nell’immaginario di contendenti e spettatori prima ancora che sul campo, e nessuno è in grado di dire con certezza se Santoso fosse davvero tra i giovani musulmani che le diedero e le presero fuori dal bar di Poso nel dicembre 1998.

Di sicuro, lui non ha mai fatto nulla per smentire o confermare l’una o l’altra versione, giocando con la costruzione della sua stessa icona. Secondo Sidney Jones, Santoso si è unito ufficialmente a Jemaah Islamiyah tra il 2000 e il 2001, poco prima che nel 2002 l’organizzazione compiesse gli attentati di Bali nei quali morirono oltre 200 persone.

Il futuro leader si mette in mostra con diversi attacchi a stazioni di polizia e centri cristiani di aggregazione, ma alcuni investigatori ipotizzano anche un suo coinvolgimento negli attentati ai trasporti pubblici avvenuti a Poso nel 2002, e forse addirittura un qualche ruolo nella decapitazione di tre adolescenti cristiane avvenuta nel 2005, quantomeno a livello di copertura dei responsabili. «Il punto è che ha sempre avuto una sua personalità indipendente – prosegue l’analista – e dopo l’arresto del 2004 ritorna in libertà aderendo a Jamaah Ansharut Tauhid, una cellula di Jemaah Islamiyah fondata nel 2008 che diventa davvero operativa nel 2010, sempre nella zona di Poso. Santoso è il capo del braccio militare del gruppo, ma la verità è che nessuno è mai riuscito davvero a controllarlo, così subito dopo ha fondato il suo gruppo, l’Mit.

Ha iniziato a condurre uno show tutto suo, ha cominciato a farsi chiamare l’Al-Zarqawi indonesiano, e a ispirare e gestire a distanza campi di addestramento per fondamentalisti provenienti da altre zone dell’Indonesia senza mai lasciare la giungla di Poso». Nel frattempo Jemaah Islamiyah sta crollando sotto i colpi del Dipartimento 88, l’élite dell’antiterrorismo indonesiano che tra il 2009 e il 2010 rintraccia e uccide in due raid separati Mohammad Top e Dulmatin, ritenuti gli organizzatori degli attentati di Jakarta nel 2009 e di Bali nel 2002. In questa fase Santoso più che un jihadista sembra ancora un pirata delle Isole della Sonda, indossa vesti colorate e si fa fotografare col fucile al braccio e il coltello alla cintola, un kris indonesiano carico di memorie anticolonialiste: siamo pur sempre nell’Arcipelago, il Nusantara, come lo chiamano i locali, una moltitudine sterminata di isole dove negli ultimi secoli i predicatori sufi dello Yemen hanno incrociato gli animisti delle giungle mescolando credenze e i mercanti cinesi del Guangdong conducevano i loro traffici tra predoni delle Molucche e marinai induisti, mentre i bucanieri inglesi, portoghesi e olandesi lanciavano scorribande su procura per conto delle rispettive Corone. In queste acque i confini marittimi tra Indonesia, Malaysia, Thailandia e Filippine si fanno indistinti, e presentarsi con un look all’araba potrebbe risultare controproducente. Poi, qualcosa cambia.

Il declino di Jemaah Islamiyah anticipa di poco l’ascesa dell’Isis. Alla fine del 2013 Santoso, che conduce ormai da anni la sua guerriglia dalle foreste di Sulawesi, è il primo indonesiano a giurare fedeltà allo Stato Islamico. «Non lo definirei un tipo particolarmente brillante, e non è neanche così abile, anche se non si riesce a catturarlo», dice Sidney Jones. «Da solo non avrebbe neppure contatti diretti col jihad internazionale, ma è stato capace di attirare l’attenzione di gente più in gamba di lui. Così, tutti questi jihadisti che stanno nell’isola di Java e hanno un filo abbastanza diretto col Daesh, qualche tempo fa decidono di inviargli a Poso un bravo social media manager, un personaggio capace di girare e montare video efficaci e diffonderli sui canali dello Stato Islamico. Ed ecco che Santoso ha finalmente acquisito una reputazione che supera di gran lunga le sue capacità effettive».

Il Santoso ultima versione, quello dei mesi scorsi, si presenta in video completamente vestito di nero, i versetti in caratteri arabi marchiati Isis stampati su una bandiera appesa a un albero sullo sfondo della giungla. Lo Stato Islamico ha ufficialmente inaugurato la nuova filiale del suo franchising nel Sudest asiatico. «Chiediamo a Santoso di arrendersi», ha dichiarato all’agenzia di Stato indonesiana il capo della polizia Tito Karnavian il 2 giugno scorso. L’Operazione Tinombala, lanciata nel gennaio scorso per catturare Santoso vivo o morto, potrebbe essere alle ultime battute. Si dice che gli uomini dell’Mit che si nascondono nelle foreste di Poso insieme al loro leader siano stati decimati dagli ultimi assalti, potrebbero essere ormai non più di una ventina.

Il Jakarta Post ha sparato in prima pagina la storia di un 17enne ex seguace di Santoso disposto a indicare alla polizia i nascondigli segreti del jihadista, ma è impossibile verificare la storia o stabilire che si tratti di un bluff di Tito e dei suoi. Il jihadista delle foreste di Poso potrebbe essere catturato o ucciso nei prossimi giorni, nei prossimi mesi. Ma intanto leader islamisti indonesiani come Bahrumsyah, Bahrun Naim e Abu Jandal, loro sì davvero in prima linea in Siria e Iraq per lo Stato Islamico, promettono nuovi attacchi contro Jakarta e il resto dell’Arcipelago.

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