Spesso gli stereotipi sono durissimi a morire, anche in tempo di guerra. Pochi giorni dopo l’invasione russa il presidente polacco Andrzej Duda − espressione della destra populista di Diritto e giustizia (Pis) − aveva twittato, non senza una certa ilarità, la notizia di un carro armato russo «rubato da uno zingaro», nella regione ucraina di Cherson, occupata in seguito dalle forze di Putin.

«In un conflitto si dice che i carri armati dell’aggressore vengono “conquistati” non “rubati”, ma non importa. In molti hanno trovato divertente il tweet di Duda, proprio a causa del pregiudizio, assai diffuso ovunque, del rom ladro», spiega Roman Kwiatkowski, presidente dell’Associazione dei rom in Polonia. Il 2018 era stato l’annus horribilis per i 400mila rom che vivevano in Ucraina con omicidi, linciaggi e pogrom concentrati soprattutto nella Rutenia subcarpatica, una zona che confina con Polonia, Slovacchia, Ungheria e Romania. Ma adesso è guerra anche per loro. In linea con il trend migratorio delle ultime settimane, diverse famiglie rom hanno intrapreso un viaggio all’incontrario.

Kwiatkowski ha una sua teoria al riguardo: «La disperazione sta spingendo molti a fare ritorno in Ucraina. Alcuni preferiscono correre il rischio di vivere in un paese in guerra alla realtà di essere sottoposti ad un’incessante discriminazione all’estero». Niente permesso di soggiorno di 36 mesi, regolarizzazione facile alla frontiera e accesso a sussidi nel Paese sulla Vistola, per chi non è in grado di dimostrare di essere in possesso della cittadinanza ucraina. «Dall’inizio della guerra, sono innumerevoli i casi di discriminazione in Polonia. Persone sballottate da un alloggio all’altro e famiglie rimandate in strada soltanto perché i bambini sono troppo rumorosi. Nei centri per l’accoglienza si dice che i rom portino i pidocchi. Dopo aver trovato un posto dove dormire a 5 madri e 12 bambini, una volontaria a Cracovia si è sentita dire dal proprietario dell’albergo «vogliamo ucraini non zingari qui».

I cittadini di etnia rom devono affrontare così una discriminazione che è doppia. La nostra associazione ospita 25 persone e stiamo cercando una sistemazione per tutti anche in altri paesi», aggiunge Kwiatkowski. Dalle sue parole si evince che l’accoglienza in Polonia è sempre più basata sulla segregazione: «Alcune organizzazioni di volontariato si sono dovute “specializzare” nel trasporto e nell’accoglienza dei profughi con la pelle più scura. Questo la dice lunga sull’attuale situazione. Qui in molto credono ancora che gli ucraini abbiano tutti carnagione e occhi chiari. Indiani o rom non importa. Chiunque non abbia queste caratteristiche quando supera il confine viene trattato in modo diverso».

Tra le «specialiste» c’è anche Mariam Masudi che coordina un progetto per Salaam Lab a Cracovia: «Dopo aver visto le differenze di trattamento dei profughi al confine ucraino e bielorusso, abbiamo deciso di aiutare le categorie più emarginate in Polonia. In questo momento ci stiamo occupando di 15 famiglie. Dopo un pernottamento di 20 giorni in strutture temporanee, li aiutiamo a cercare un alloggio. Ma è difficilissimo trovare qualcuno che sia disposto ad affittare una casa a una famiglia rom. E una sfida enorme per loro e per noi. Non siamo a conoscenza di altre organizzazioni in Polonia che facciano questo tipo di lavoro».

Al loro arrivo i rom incontrano ostilità e pregiudizi ma devono fare i conti anche con l’indifferenza di molte persone: «L’altro giorno una donna di etnia rom con due bambini mi ha raccontato di non aver trovato nessuno disposto ad aiutarla a capire come muoversi dopo essersi persa in un ospedale con Google Maps. Secondo lei sono le donne più degli uomini in questo paese ad essere indifferenti nei confronti dei profughi rom», confessa Masudi alla fine di un’altra giornata estenuante al lavoro. Per Kwiatkowski non ci sono soluzioni facili. Esiste solo un modo per cambiare le cose: «Il governo a Varsavia non sta facendo nulla per eliminare le discriminazioni. L’unica soluzione per combattere gli stereotipi è investire nell’educazione interculturale. Una questione trascurata per anni che non si può risolvere organizzando un paio di lezioni a scuola».